di Massimo Blasoni
Dopo quelli di magistratura e sindacati, come tralasciare un accenno ai mali della nostra università? I nostri atenei costano, ogni anno, 10 miliardi e soffrono oggi di una profonda crisi di credibilità, in primo luogo per la difficoltà evidente a dialogare efficacemente con il mondo del lavoro. Il mismatch tra sistema scolastico – a tutti i livelli – e lavoro sta diventando pericoloso. Il 75% degli studenti universitari di questo Paese ritiene che il sistema accademico sia incapace di dare una preparazione volta a un efficace inserimento professionale Un terzo dei laureati che hanno trovato un’occupazione dopo aver concluso gli studi non svolge un lavoro per il quale è richiesta una laurea. L’inserimento di formule come il 3+2, triennio generalista e biennio specialistico orientato alla professionalizzazione, si è rivelato inefficace. Il percorso di professionalizzazione è ancora il gradino mancante, tanto che, terminata l’università, per una preparazione completa è richiesto un ulteriore livello di formazione, attraverso master o tirocini esterni. Puntiamo molto sul sapere e troppo poco sul saper fare. La nostra cultura prevalentemente idealista fatica a trasformarsi in tecnico-scientifica e a confrontarsi con le sfide reali.
Intanto il numero delle immatricolazioni continua a calare
(-20,4% negli ultimi 10 anni), mentre aumenta quello degli abbandoni (circa il 40% degli iscritti). I nostri atenei hanno oramai perso attrattiva anche verso l’estero. Sono pochissimi gli studenti stranieri che scelgono il nostro Paese per completare la propria formazione: solo il 3%. Le università del Regno Unito attraggono un 18% di studenti stranieri e la media Ocse è del 10%. Per contro, da noi è inarrestabile la fuga dei cervelli. Importiamo mano d’opera a bassa specializzazione ed esportiamo i nostri figli. L’operazione «rientro dei cervelli» intitolata nel 2009 a Rita Levi Montalcini – 6 milioni di euro per riportare in Italia le menti più brillanti – ha al suo attivo appena 29 scienziati rientrati in Patria. Concluso il bando del primo
anno, gli altri non hanno ancora visto la luce. I ricercatori che ce
l’hanno fatta a rientrare hanno ottenuto un contratto di tre anni,
eventualmente rinnovabile per altri tre. E poi? Non è dato sapere.
95 università con oltre 330 sedi distaccate e 170mila insegnamenti
sono i numeri di un sistema gravemente malato. Gli altri
Paesi europei ne hanno in media la metà. Oltre 20 sono le nostre
università sull’orlo della bancarotta, eppure si continua ad assumere
e a bandire concorsi, che spesso creano idonei senza che ci siano
posti disponibili.
Il sistema è poi troppo segnato dal malcostume di baroni vicini
alla settantina ancorati a una cattedra che frutta stipendi rilevanti.
Accanto a loro, un folto esercito di assistenti e ricercatori attenti a
non scontentare il barone di turno. Per giunta tale sistema universitario
– è risaputo – favorisce i privilegiati e scoraggia i più meritevoli.
In 25 delle 59 università statali italiane i rettori hanno familiari con
qualche cattedra. Quasi il 50% ha almeno un parente stretto nell’università in cui presta servizio e quasi sempre è un altro docente.
A Napoli, nella facoltà di Economia e Commercio dell’università
Federico II, sono state rintracciate 140 parentele accademiche su
un totale di 877 docenti. E che dire degli scandali che da decenni
campeggiano sui quotidiani nazionali e che imbruttiscono ancor
di più un sistema di istruzione già fortemente penalizzato? Già nel
1909 Benedetto Croce scrisse un polemico pamphlet, dal titolo Il
caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana, nel quale
lamentava fortemente che per una cattedra all’università di Napoli
al filosofo siciliano fosse stato preferito uno studioso con titoli
scientifici di gran lunga inferiori. L’iniquità dei nostri concorsi a
cattedra è nota a tutti. I concorsi ad personam sono diventati una
prassi tacitamente e universalmente accettata. Il clientelismo e la
parentela contano più del merito. Non stupisce dunque che dal 1999
al 2007 il 90,2% dei docenti vincitori di concorso provenisse proprio
dall’università che aveva messo a bando la cattedra.
Come fanno le università a finanziare la ricerca se spendono
per gli stipendi la quasi totalità dei fondi loro destinati? La risposta
è patente: non lo fanno. Di pari passo, nelle graduatorie sulle migliori
università del mondo i nostri atenei stentano a brillare. Nella
classifica Qs World Universities Ranking 2014-2015 l’università
italiana al primo posto è Bologna, piazzata al 182esimo (nel 2010
era la 176esima), seguita dalla Sapienza di Roma al 202esimo posto
e dal Politecnico di Milano al 229esimo. Ai primi tre posti il Mit
di Boston, Cambridge in Inghilterra e Harvard sempre negli Stati
Uniti. La classifica tiene conto della capacità di produrre cervelli,
della didattica, dei costi per gli studenti, delle pubblicazioni accademiche,
del livello occupazionale degli studenti, della capacità di
internazionalizzazione delle università. Purtroppo non eccelliamo
in niente di tutto ciò. Oggi auspicare una riforma capace di cambiare
radicalmente lo status quo ed estirpare caste e malcostume sembra
pura utopia, anche perché ben poco possono le leggi dove corrotti
sono i costumi.
Che dire poi della proliferazione eccessiva – e quasi sempre
ingiustificata – di mini facoltà, sedi distaccate e micro corsi, nati
talora dall’esigenza politica di accontentare le ambizioni di una
città o di un territorio in cambio di rinnovate alleanze, talora per giustificare questa o quella cattedra spesso ottenuta attraverso la
procedura, tutta italica, dell’«idoneità multipla»? Tra il 2000 e il 2006
le università hanno bandito 13.232 posti per professori. Ne sono
usciti 26.004 idonei. Più professori, più corsi, più fondi, più potere.
A tutto discapito della qualità dell’offerta. In Italia ci sono decine di
corsi di laurea che non arrivano nemmeno a 15 iscritti (qualcuno
con un solo studente) e comportano costi elevatissimi e una quantità
d’offerta inversamente proporzionale al suo pregio. In Italia esistono
più di 20 facoltà di agraria. In Olanda, una. Facile pensare che lì sia
concentrata l’eccellenza. L’abolizione del valore legale del titolo di
studio, presa in considerazione ma mai attuata, avrebbe costretto
le università a competere facendo emergere le eccellenze esistenti
tanto dei corsi di laurea che della ricerca. Per contro, oggi una laurea
conseguita in una nota università vale tanto quanto quella ottenuta
dall’unico studente iscritto a Camerino. Negli Stati Uniti la scelta
è tra Harvard, Yale, Stanford o una delle molte piccole università
disseminate per il Paese. Ma laurearsi a Harvard, Yale o Stanford
significa trovarsi una fila di aziende che competono per assumerti,
mentre laurearsi in un’università di seconda o terza categoria comporta
la concreta possibilità di restare disoccupato. Spesso, ed è un
dato di fatto, i migliori tendono ad andarsene. In cerca di lavoro, ma
anche di riconoscimento delle proprie capacità e di possibilità che
in Italia non trovano. Inoltre, troppo frequentemente si è enfatizzata
la «sacralità» dell’università che ha finito per essere una specie di
luogo chiuso che pretende che la società si adegui ai suoi ritmi e
non l’opposto. Ma le aziende non assumono persone che non hanno
le abilità che ricercano. E quante volte qualche laureato si è trovato
ad accettare lavori che con la propria preparazione accademica non
c’entravano nulla? Che senso ha un sapere accademico che rischia
di essere solo preservazione del passato se non diventa opportunità
di lavoro e risorsa per il mondo produttivo? Infine, il tema della
programmazione. Da liberali, è ovvio, va riconosciuta a ogni studente
la possibilità di scegliere il proprio percorso universitario. Ma
forse sarebbe necessario, quanto meno in termini di moral suasion,
prospettare ai giovani quali sono gli spazi professionali e di mercato
che sono richiesti e quali cicli di studio invece rischiano di tradursi
in una probabile disoccupazione. Dire chiaramente agli studenti e alle loro famiglie che avevano sognato le professioni liberali quali
garanzia di censo che oggi ci sono troppi avvocati non pare dirigismo,
piuttosto buon senso. Non è un caso che tra il 2008 e il 2013
degli oltre 500mila italiani emigrati più della metà erano giovani.
tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni