Un’Italia centrifuga e centripeta

Tratto dal libro “Privatizziamo!Ridurre lo Stato, liberare L’Italia” di Massimo Blasoni

Il futuro potrebbe prospettare diverse possibilità: dall’Europa Unita Stato sovrano sino alla dissoluzione di parte degli Stati attuali scomposti in molteplici regioni, anche in assenza di forme federative. Tra un estremo di oscillazione e l’altro del pendolo, quanto la nostra fantasia possa suggerire: l’Unione si dissolve e gli Stati restano tali, oppure vi sono aggregazioni mediterranee e altre del nord Europa, oppure l’Unione resta, ma ricompaiono le valute. Non si può preconizzare il futuro. Da un lato, le spinte della globalizzazione economica e gli strumenti di comunicazione e interazione culturale sempre più rapidi fanno pensare a un futuro in cui l’utilità comune è rappresentata da organismi sovranazionali di gran lunga più incisivi di quelli attuali, dunque con una sovranità nazionale più flebile o assente. D’altro canto, però, si contrappongono spinte regionali e localistiche molto forti e tensioni anche militari fra aree del mondo che potrebbero delineare un futuro completamente diverso da quello che la semplicità e l’efficienza intrinseche alla globalizzazione inducono a credere possibile. Non vi è certezza che il modello europeo attuale non si disgreghi e con esso la moneta unica. Perché, a ben pensarci, l’Unione non è connotata da un ideale politico e valoriale davvero comune, non ha un obiettivo geopolitico, non dispone di una lingua e di una storia che possano essere effettivamente riconducibili ad unum. Quello che tiene insieme l’Unione Europea è un’aspirazione di natura economica che, al susseguirsi di risultati negativi, potrebbe perdere la sua capacità aggregativa. La domanda che si vuol porre è se a questa vasta gamma di futuri possibili convenga o meno approssimarsi come italiani, cittadini di una medesima Nazione. Effettivamente, la stessa idea di Italia è potenzialmente in dubbio. Si è persa via via la post-risorgimentale consapevolezza di sé e dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale ci si è nutriti di un atteggiamento dimesso verso il resto del mondo e di un forte senso di inferiorità. A tutto questo non si è quasi mai contrapposto un desiderio di revanche nazionale. Gli stessi risultati economici del dopoguerra sono stati visti più come l’espressione di un nord laborioso e industriale che come un dato davvero nazionale. Le differenze tra nord e sud e il sentimento di sfiducia verso lo Stato nazionale (visto nel Mezzogiorno come incapace di risolvere i problemi e nel Settentrione quale moltiplicatore di quegli stessi problemi, in quanto burocratico e iniquo nella ripartizione delle risorse) sono rimasti un dato cruciale. Anche da qui sono venute le spinte federaliste, rivelatesi però in ultima istanza ben poco utili, perché più apportatrici di nuovi sprechi che capaci di rendere meglio funzionante il sistema. Certo non è impossibile un futuro fatto di Stati regionali e una parte degli italiani si sente veneta, siciliana, piemontese. I più, però, provano una parziale indifferenza verso le proprie provenienze regionali. C’è stata troppa mobilità nel Paese e per larga parte delle giovani generazioni i riferimenti culturali sono altri. È, va ribadito, soprattutto un diffuso senso di smarrimento rispetto al Paese nel suo complesso, a un’Italia di cui non si ravvisano le ragioni culturali costitutive, che non sono più intimamente possedute. Siamo insomma italiani – lo percepiamo, abbiamo tradizioni, etnia comuni – ma fatichiamo a spiegare cosa questo significhi e che senso abbia per noi. Sopravvivono per lo più il particolare e i rapporti familiari, perciò ci facciamo ancor più individui. Conviene però ragionare su un aspetto relativamente alla domanda che si è posta, cioè se convenga o meno approssimarsi al futuro come italiani, cittadini di una medesima Nazione. Innanzitutto, che il futuro sia caratterizzato dall’Unione Europea compiutamente federata o dalla sua disgregazione, esistono realtà statuali molto più coese della nostra che, con ogni probabilità, resteranno tali in entrambe le ipotesi. Ci sono senza dubbio forti spinte localistiche – dalla Catalogna ai Paesi Baschi, dal Veneto all’Alto Adige – ma vi sono altrettanto coese realtà nazionali. S’immagini pure dissolta questa Italia in cui poco crediamo, esclusa l’apolidia, due sarebbero le possibilità perognuno di noi: mutare la propria origine e farsi tedesco o francese così rinunciando alla propria identità personale (sono un individuo, ma ho coscienza di me in forza di un quadro culturale e sociale riconosciuto, si pensi alla lingua) e questo certo non vorremmo; oppure partecipare al futuro come espressioni regionali di un’Italia frammentata: ma non sarebbe vantaggioso. E su questo vale la pena spiegarsi. Talvolta, essere una realtà statuale di piccole dimensioni è conveniente. Certamente, a paradigma, hanno senso i vantaggi fiscali e bancari di Liechtenstein e Lussemburgo. Se però l’offerta si amplia e diventa patrimonio di molte regioni, la numerosità annulla il beneficio e lo trasforma in standard. E se allora la dimensione regionale non si trasforma in un’enclave vantaggiosa per i potenziali investitori, non è produttiva. Per il resto, essere un piccolo Stato regionale in presenza di grandi Stati nazionali non pare efficiente. Non aiuta la ricerca, la cultura e l’impresa. Le università migliori ben di rado si trovano in piccole realtà geografiche e demografiche. E se il modello a venire dovesse comunque vederci parte di un’Europa federata con un organismo rappresentativo, ovviamente la rappresentanza parlamentare di un Paese grande sarebbe meglio in grado di incidere. Sicuramente in quello scenario conterebbe di più il voto tedesco di quello della Basilicata o del Piemonte. Poi è evidente che, al di là dell’espressione di voto, l’influenza politica ed economica (e lato sensu sottilmente militare) di una grande realtà, nazionale seppur federata, finisce per portare benefici ai propri cittadini e alle proprie imprese, migliori di quanti ne possa conseguire una realtà di modeste dimensioni. Il contesto europeo attuale resta caratterizzato in maniera consistente dalla politica degli Stati che continuano a perseguire vie proprie a sostegno dell’esportazione delle proprie aziende e degli interessi economici dei propri cittadini. E per il momento, a ben vedere, non si può ipotizzare un diverso sviluppo. Con l’eccezione forse della Lombardia, tutte le singole regioni italiane non avrebbero peso sufficiente. Meglio allora varcare la
prossima soglia come italiani, cittadini di un unico Paese. Se il quadro futuro sarà l’Unione Europea che conosciamo, la difesa delle istanze di coloro che parlano italiano (la koinè come peculiarità) avrà senso soltanto con una consistenza dimensionale e politica che è impossibile al singolo individuo e che non sarebbe alla portata delle piccole regioni. E, se non sarà Europa, la situazione non muta, perché comunque i competitor economici resterebbero i singoli Stati del globo e le dimensioni regionali ci relegherebbero comunque in un futuro di scarso benessere. Dunque, quale che sia il futuro dell’Europa, «centripeto o centrifugo», ci si deve attrezzare a risollevare la situazione italiana, perché solo come italiani siamo in grado di competere. Si deve insomma entrare nell’ordine di idee che è questo il Paese da riformare ed è questa la comune imbarcazione per una traversata che, con ogni probabilità, altrimenti non riusciremo a compiere.

Massimo Blasoni

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