Tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni
La concezione dello Stato basata su una visione eccessivament formalista è talmente radicata da rendere difficile, per la maggior parte di noi, ipotizzare un modello diverso, più semplice, in grado di servirci meglio. La privatizzazione di uffici e servizi pubblici è oggetto del capitolo che segue. Qui ci si sofferma brevemente sulla semplificazione amministrativa, nonché sulle liberalizzazioni e sulle privatizzazioni delle partecipazioni pubbliche in imprese. Dalla più banale azione quotidiana alle complesse relazioni industriali o fra istituzioni e organismi, quasi tutto è esageratamente regolamentato e spesso in modo cervellotico. Vi sono innumerevoli professionisti che traggono il loro sostentamento dall’interpretazione dei regolamenti, qualche volta quasi sovrastrutture a quello che potrebbe essere semplice. Accanto ai tradizionali avvocati e commercialisti, abbiamo così esperti certificatori e decrittatori di norme sulla sicurezza, sul lavoro e innumerevoli altri. Quante volte queste prestazioni paiono ridondanti, rese necessarie dall’eccesso e dalla complessità della produzione normativa? Stato, regioni e comuni legiferano e regolamentano senza sosta. Talora in contraddizione fra loro. La semplificazione dei procedimenti amministrativi è un’esigenza comune dei Paesi a economia di mercato a fronte dell’aumento di funzioni pubbliche e dell’enorme incremento delle regole e delle strutture volte al loro controllo. Regolazioni non necessarie, inadeguate, eccessivamente gravose in un contesto di competizione tra ordinamenti rappresentano costi e rallentamenti dannosi. Conferenze dei servizi, pareri obbligatori, certificazioni e una montagna di carte frenano lo start up e la vita delle imprese e anche dei cittadini. Di semplificazione si iniziò a parlare già dai primi anni del secolo scorso.
La prima Commissione per la semplificazione burocratica venne istituita nel febbraio 1918; era presieduta da Giovanni Villa e da lì a poco succedettero le Commissioni Schanzer e Cassis. Invece la prima legge di semplificazione fu battezzata da Bonomi nel 1921. Ma in tempi recenti semplificazione è diventata una parola d’ordine, anche se per lo più genera disordine. Vi fu un ministro per la Semplificazione (Calderoli), assistito da una Commissione parlamentare, da un Comitato interministeriale e da un’Unità governativa con la medesima funzione. Nel 1997 è stata introdotta la legge annuale di semplificazione, peraltro approvata soltanto quattro volte (nel 1999, nel 2000, nel 2003, nel 2005). Nel frattempo, numerosissimi interventi viaggiavano sui binari del decreto: per esempio il Semplifica Italia, varato da Monti nel 2012. Sostanzialmente senza risultati. Gli italiani sono abituati a richiedere permessi e a dover produrre certificazioni per ogni cosa: dal valore legale del titolo di laurea alla raccomandata.
E così ci si chiede se avrà efficacia formale una mail se non è pec… È indifferibile semplificare, ad esempio consentendo al cittadino di agire non sulla base di una preventiva autorizzazione a fare, ma con controlli successivi: non devo chiedere allo Stato il permesso di edificare, magari attendendo mesi, ma posso farlo nel rispetto della legge, salvo il controllo a posteriori. La complessità normativa e burocratica è un lusso che non ci si può permettere. Qui con il termine «complessità» ci si riferisce a molte e differenti cose. In primo luogo, a un sistema giuridico del tutto privo di chiarezza, ma soprattutto contraddistinto da una miriade di leggi e da una sovrapposizione di competenze che, in vari casi, permette abusi e arbitri. La legalità non si costruisce con l’ipertrofia legislativa, che al contrario genera proprio una fondamentale incertezza normativa.
La legalità si costruisce semmai con un ordine giuridico più semplice, chiaro, davvero al servizio della società. Vi è anche una complessità di livelli di governo (dal Presidente della Repubblica fino alle circoscrizioni cittadine o alle comunità montane) che esige da troppo tempo di essere superata. Bisogna insomma ridurre l’articolazione e con essa la stessa presenza dello Stato, che per essere autorevole deve agire a supporto della società e non già rischiare di ostacolarne la crescita e la libera espressione.
La semplificazione amministrativa, le liberalizzazioni e la privatizzazione della partecipazione pubblica a imprese sono connesse poiché esaltano il ruolo della sussidiarietà orizzontale. Liberalizzare è necessario e significa sia abolire restrizioni – all’avvio di nuove realtà economiche, come all’accesso a mestieri o professioni – sia superare monopoli, soprattutto statali, garantendo condizioni favorevoli alla competizione. Il processo di liberalizzazione dunque attiene a più aspetti. Che si tratti però di superare un monopolio pubblico (come fu per l’energia o per la telefonia), di andare oltre al numero chiuso per i notai o le farmacie, o di semplificare l’apertura di nuove attività (si pensi agli esercizi commerciali), in ogni caso, eliminare le restrizioni favorisce lo sviluppo, l’occupazione e la concorrenza. Liberalizzare è anche proteggere i consumatori da contratti vessatori (banche, assicurazioni, poste, acquisti on line). Significa anche permettere di avviare iniziative che oggi sono ostacolate in vari modi e talora perfino vietate. Gli effetti delle liberalizzazioni determinano più spazi d’azione per ogni intrapresa, permettono l’arrivo di investimenti e imprese straniere, favoriscono una migliore articolazione e integrazione delle nostre aziende, assicurano una concorrenza più dinamica e meglio in grado di soddisfare i consumatori. In Italia, sul tema si è fatto troppo poco. L’ultimo a provarci, prima dei troppo timidi annunci del governo Renzi, è stato Mario Monti con il Cresci Italia, con risultati assai deludenti rispetto alle aspettative. La maggior parte delle misure previste sono state di fatto bloccate dai grandi gruppi d’interesse. Al di là della deregulation sugli orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali, si sono salvati da qualsivoglia deregolamentazione i tassisti e sono state poche se non nulle, le novità per le farmacie e gli ordini professionali. Eppure il tema delle liberalizzazioni è uno dei nodi fondamentali da affrontare al fine di ridare competitività a un Paese che conosce tassi di crescita troppo bassi, quando non negativi. In Italia si pagano di più l’acqua, i servizi professionali e i trasporti. Ciò, è evidente, a tutto detrimento della competitività delle nostre imprese e del potere d’acquisto dei nostri salari. Una piena liberalizzazione del settore dei servizi (dati Banca d’Italia) varrebbe 11 punti percentuali di pil. Questo è insomma il costo delle mancate riforme. L’Indice delle liberalizzazioni 2014 realizzato dall’Istituto Bruno Leoni ci consegna, infatti, una fotografia deprimente. L’Italia è tra gli ultimi Paesi europei, dietro a Grecia, Spagna, Portogallo e lontanissima dalla Gran Bretagna, top performer. Il nostro Paes è maglia nera in settori quali la televisione, i carburanti, le poste e il mercato del lavoro. Tutti settori che hanno in comune, nel nostro Paese, tanto la presenza di un operatore dominante in mani pubbliche quanto una regolamentazione oltremodo pervasiva a scapito della concorrenza.
L’Italia di oggi è certo diversa da quella che precedette gli anni Novanta. Si sono fatti passi in avanti: dalle assicurazioni sui mezzi di trasporto ai servizi bancari e finanziari ai trasporti aerei e ferroviari, passando per il gas e i servizi postali. Così pure con riferimento all’energia elettrica, ai medicinali e alla telefonia. Oggi occorre moltiplicare per dieci quei passi e con coraggio procedere per superare quelle rendite di posizione che ancora frenano la nostra economia. Anche perché un mercato più libero è uno strumento per ridistribuire reddito assai più efficace di intricate operazioni fiscali. La determinazione invocata per le liberalizzazioni è necessaria anche in tema di privatizzazioni. Oggi più che mai, privatizzare la partecipazione pubblica a imprese dovrebbe essere un imperativo per qualunque governo di qualsivoglia colore. Le partecipazioni
sono moltissime, da quelle statali all’ultima municipalizzata o consorzio e quasi sempre accumulano pesanti deficit e svolgono attività che ben poco rispondono a criteri economici (dall’Iri ad Alitalia) dovendo far corrispondere piuttosto la propria azione ai desiderata di politici e consigli di amministrazione di nomina politica. Certo si tratta di privatizzare non seguendo regole per così dire politiche: ci sono, infatti, due tipi di privatizzazioni. La privatizzazione normale è la semplice trasformazione dello status giuridico di un ente o di un’impresa di proprietà pubblica nelle svariate forme che può assumere una società di diritto privato. Questo, però, vuol dire che lo Stato può mantenere la maggioranza delle azioni avendo dunque il controllo direttivo della società. Diversa è la privatizzazione sostanziale o materiale, con la quale si determina un vero e proprio passaggio della titolarità della proprietà e, di conseguenza, del potere di controllo dalla mano pubblica a quella privata. Perché privatizzare? Perché quella stessa impresa, passata alla gestione privata, spinta dalle leggi di profitto, si dimostra generalmente in grado di generare un’amministrazione più attiva dinamica ed efficiente. Di perseguire scopi più redditizi per l’azienda, incrementandone profitti, ovvero risanando debiti e bilanci. La gestione privata produce anche benefici per i consumatori sotto forma di qualità del servizio e di riduzione dei costi. Nel nostro Paese si è privatizzato poco e, soprattutto, male. Il fine non è stato insomma migliorare la competitività di quelle imprese, piuttosto si è ceduta una parte delle azioni, ben attenti però a mantenere il controllo e il potere direttivo. Così è stato per Enel, Fincantieri, Finmeccanica e via dicendo. Il resto è storia recente. Consideriamo la privatizzazione delle Poste. L’azienda verrà venduta senza separare il servizio postale tradizionale dal Banco Posta, cosicché i profitti del secondo continueranno a sostenere il servizio core e in modo certo non trasparente. Esattamente l’opposto di ciò che ha fatto Google quando ha creato Alphabet. E la privatizzazione delle Poste non è certo sostanziale. Il Tesoro manterrà il 60% delle azioni e imporrà, per il residuo, un tetto del 5% al possesso azionario.
L’obiettivo è quello di tenere lontani investitori istituzionali, ritenuti in qualche modo pericolosi. In vent’anni, secondo l’Istituto Bruno Leoni, lo Stato ha comunque incassato, grazie alle privatizzazioni, 127 miliardi di euro, eppure non ha approfittato di ciò per riconvertire e modernizzare l’economia italiana, o ridurre il debito pubblico. Le prime privatizzazioni italiane firmate Draghi e Amato (allora rispettivamente direttore del Ministero del Tesoro e Primo Ministro) datano 1992. A quell’epoca lo Stato controllava quasi interamente il sistema bancario e interamente quello ferroviario e aereo, le autostrade, il gas, l’elettricità e l’acqua, la telefonia, larga parte dell’industria siderurgica e altro ancora. Quel piano di privatizzazioni fu dettato dall’urgenza dei conti pubblici. Fu l’epoca delle grandi dismissioni bancarie e assicurative, dal Credito Italiano alla Banca Commerciale Italiana. Poi fu la volta di Ciampi, che trasferì Telecom Italia nelle mani di un gruppo di azionisti. Nel 1999 D’Alema privatizzò le autostrade, e porzioni di Enel, senza perderne il controllo però. Resta moltissimo da fare in fatto di privatizzazioni a partire dal convincimento, che va acquisito, che lo Stato non deve gestire le imprese. Oggi ci attende, tra le altre, la sfida di privatizzare – sostanzialmente e in toto – Poste, Ferrovie, Fincantieri, Enav, Enel, Eni. Non vi sono poi solo le società del Tesoro, ma anche le migliaia di partecipate di comuni, province e regioni, più volte menzionate.
Talvolta sono inutili o sono nate per dare una veste solo formalmente privata – vantaggiosa per maneggi politici – e andrebbero semplicemente chiuse. Negli altri casi è d’uopo privatizzarle: sono costate alla collettività 26 miliardi (relazione Corte dei Conti) nel 2014, pur rendendo servizi spesso inefficienti. Nella sola Sicilia le partecipazioni (nella veste di municipalizzate, consorzi, spa, agenzie, fondazioni e via dicendo) hanno registrato perdite per 117 milioni. Nello stesso anno in Abruzzo il risultato è negativo per 43 milioni, come in Molise. Non si hanno esiti migliori nella maggior parte delle altre regioni e quando il risultato per le partecipate è positivo, spesso dipende da un monopolio a prezzi imposti. Così avviene, ad esempio, per le società regionali che gestiscono servizi informatici che obbligatoriamente devono essere acquistati da Asl e comuni senza alcuna possibilità di concorrenza per altri soggetti. Una precisazione: privatizzare correttamente non vuol dire nemmeno creare nuovi monopoli ancorché privati. Privatizzazioni e liberalizzazioni debbono procedere di pari passo. Infatti, consegnare il monopolio di un settore a un soggetto privato al posto di uno pubblico non risolverebbe i problemi. La concorrenza è altrettanto fondamentale per raggiungere i risultati che vorremmo in tema di qualità dei servizi e minor costo per i cittadini.
Massimo Blasoni