di Massimo Blasoni
Nel 1861 l’Italia, su circa 25 milioni di abitanti, aveva appena 3
mila o poco più impiegati pubblici censiti nella pianta organica dei
Ministeri, specificamente collocati negli apparati centrali. Sarebbero
diventati 11mila nel 1876. Circa 90mila alla fine del secolo. La spesa
statale, come percentuale del pil, si attestava intorno al 10%. Oggi
i dipendenti pubblici dichiarati dalla Ragioneria dello Stato sono
tre milioni e 300mila. A questi però si aggiungono, secondo l’Istat,
38mila tra professori universitari a contratto e ricercatori, a cui sommare
i dipendenti delle partecipate degli enti locali. Vi sono poi i
dipendenti delle partecipate e controllate dal Tesoro. Dai dati della
Corte dei Conti, ad esempio, la Rai ha oltre 12mila dipendenti, le
Ferrovie 69mila e le Poste 144mila. L’elenco non finisce ovviamente
qui e, se a tutto questo si dovessero aggiungere anche le stimate
500mila consulenze sottoscritte in un anno dalla Pubblica Amministrazione
nei suoi vari livelli, il numero complessivo supererebbe
di gran lunga i quattro milioni. Secondo l’Ocse, l’Italia figura tra i
Paesi la cui dimensione del settore pubblico è maggiore.
E quante leggi ci sono? Nessuno ne conosce con esattezza la
cifra. Pare un mistero: forse ne sono state promulgate 130mila dal
1861, cioè dall’Unità d’Italia. Per Bassanini quelle vigenti erano di
meno, 45mila, per Sabino Cassese 160mila, ma c’è chi è arrivato a
ipotizzarne 300mila. Di sicuro ce ne sono troppe, si contraddicono
e per quanti sforzi si faccia per delegificare o ridurne il numero non
si sortisce alcun risultato. E non vanno dimenticate quelle europee,
quelle regionali, i regolamenti di comuni e province. E che dire dei
decreti attuativi e dei regolamenti di attuazione delle norme? Certo
nessuno le conosce tutte, anche se la legge non ammette ignoranza.
La vita in Gran Bretagna è governata da 3.000 leggi, in Germania
sono 5.500 e in Francia 7.000. Non paiono Paesi incivili. In Italia
solo quelle fiscali sono 1.800.
L’eccesso di produzione normativa e la grande quantità di impiegati
pubblici non sono gli unici problemi. Ci sono anche 8.057 comuni,
110 province (per il momento), 20 regioni, di cui 5 speciali. I livelli
si intersecano con le competenze e prolifera la burocrazia. Dove tutti
dispongono e tutti dialogano con tutti. Ogni comune appartiene a una
provincia, ma la provincia non fa da tramite nei rapporti con la regione
e questa in quelli con lo Stato a livello gerarchico, poiché il comune,
essendo dotato di personalità giuridica, può avere rapporti diretti con
la regione e con lo Stato. Tutti gli enti locali disciplinano con proprio
regolamento, in conformità allo statuto, l’ordinamento generale degli
uffici e dei servizi. Una sorta di guazzabuglio in cui il cittadino si deve
muovere. I palazzi della burocrazia sono anche le prefetture, i palazzi
di giustizia, gli ispettorati, i dipartimenti di prevenzione delle Asl e le
mille altre articolazioni dello Stato. Equitalia, gli uffici finanziari, il Pra…
E perché non parlare delle aziende speciali, fondazioni e società che
fanno riferimento agli enti locali? Sono 8.000, forse di più. Dovevano
occuparsi dei cinque servizi pubblici di base: acqua, elettricità, gas, trasporto
pubblico locale e rifiuti. E in realtà si occupano un po’ di tutto.
Non è forse espressione della burocrazia in senso lato anche la
presenza dello Stato in economia? Dalla Rai alle Poste, dalle Ferrovie
all’Enel, dall’Eni a Finmeccanica, dalla Cassa Depositi e Prestiti alla
Consap, dall’Enav alla Consip, dall’Anas all’Istituto Poligrafico, e si
potrebbe a lungo continuare.
estratto dal libro Privatizziamo! di Massimo Blasoni