L’Europa

Tratto dal libro “Privatizziamo!Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni

Occorre affrontare senza timore il tema delle modalità della nostra partecipazione all’Europa. Dall’euro abbiamo tratto sia vantaggi che svantaggi, ma occorre riconoscere che ben difficilmente potremmo reggere l’uscita da un’unione monetaria in cui forse piuttosto sarebbe stato necessario entrare in maniera diversa. Non abbiamo, né sul piano politico né su quello economico, la forza di una partecipazione simile a quella inglese: dentro l’Unione ma con valuta e banca centrali e nazionali. Né abbiamo per ora dimostrato tra i Paesi dell’area euro il peso politico necessario a un’azione realmente incidente. Questa Europa sembra molto più la proiezione della Germania che dell’Italia e, fatto ogni atto di contrizione per i nostri errori, che questo per il Paese sia un bene è tutto da dimostrare. Occorre uscire dal paradosso che ci vede stretti tra l’impossibilità di uscire dall’euro (pena spread e inflazione altissimi) e politiche di eccessiva stabilità e, tutto sommato, di forte apprezzamento della moneta rispetto alle altre valute: parametri che obiettivamente sembrano più congeniali ad altri partner europei. Certo, la Bce ha svolto di recente un ruolo più espansivo ma solo da quando la sua azione è diventata improcrastinabile. È necessario rendere più incisiva la nostra partecipazione al consesso europeo perché l’Europa sia un po’ più congeniale all’Italia e il nostro ruolo sia meno pletorico. Questo senza dimenticare l’entità del nostro debito pubblico o l’esigenza di rivedere completamente l’efficienza della nostra spesa. Rilanciare il Paese prescindendo da una riflessione sul suo rapporto con l’Unione e sull’interazione della nostra economia con l’euro è improponibile. Per quanto ne condividiamo lo spirito, è difficile non esprimere dubbi sull’Europa che oggi conosciamo. In sé non è liberale un modello che ha contestualmente parametri comuni obbligati (come la moneta) e grandi differenze con riferimento al costo del lavoro o all’imposizione fiscale nei singoli Stati. O la competizione è caratterizzata da piena libertà su tutto o l’asimmetria non ci pone nell’alveo liberista. L’inflazione che ricorda Weimar in Germania per converso potrebbe – entro ragionevoli limiti – essere utile per l’Italia, proprio per il suo enorme debito. Allo stato dei fatti, almeno. Stabilità o sviluppo? Il modello Fed dopo Lehman Brothers, con un elevatissimo impegno del Tesoro americano, o la Bce come si è comportata sino al 2013? Quanto al qe, che in effetti rappresenta un parziale cambio di rotta della Banca Centrale Europea, è tutto da dimostrare se il suo intervento sul mercato secondario dispiegherà i suoi effetti anche sulle nostre famiglie e imprese o principalmente su sistemi creditizi
ed economico-industriali più forti. Insomma, se il sistema bancario italiano è sottocapitalizzato e le imprese hanno basso merito creditizio, il rischio è che quel fiume di denaro prenda altre vie. È prefigurabile in queste condizioni il rilancio dell’economia in Italia? Certo, la debole crescita con tassi Bce prossimi allo zero dimostra che non è sufficiente la politica monetaria. E anche gli effetti di una doverosa contrazione della spesa pubblica rischiano di essere minimi. La spending review dovrà generare risorse che di fatto verranno destinate alla contrazione del debito sulla base degli accordi europei di fiscal compact. Sarebbe più utile che i minori costi generati dalla revisione della qualità e dalla quantità della nostra spesa pubblica fossero finalizzati allo sviluppo mediante la riduzione dell’imposizione fiscale. Corriamo il rischio di una crisi profondissima, i cui effetti sono destinati a incrementarsi, con la conseguente perdita di porzioni rilevanti di sovranità nazionale, nonché di titolarità di parte dell’economia reale. Si guardi al surplus della bilancia commerciale
tedesca o al fatto che molte nostre aziende strutturalmente indebolite finiscono per essere acquistate da investitori esteri. In un mercato globale il problema non è la proprietà nazionale delle aziende, ma purtroppo questo è certamente un sintomo della crisi dell’economia di un Paese. Non si tratta di disconoscere che il debito e l’eccesso di spesa pubblica siano stati causati da scelte fatte in Italia. È tuttavia necessario concorrere a modificare politiche europee molto poco adatte a sostenere il rilancio del Paese, senza peraltro dimenticare che l’Italia è contributore netto del bilancio dell’Ue, malgrado la sua difficile situazione. Peraltro, è ragionevole pensare che i mercati premino i comportamenti virtuosi, ma questi non sono espressione di un unico rigido schema. È infatti vero che i mercati accetterebbero anche temporanei maggiori sforamenti del deficit, se da questi conseguisse crescita. Se sulla base della politica attuale, il rapporto debito/pil resta uguale e addirittura peggiora, la risposta dei mercati ovviamente non c’è. Non è peregrino affermare che si può provare a guidare piuttosto che essere guidati. 1) I mercati rispondono positivamente non di rado più al crescere del pil che al decrescere del debito; 2) la crescita è innescata da misure di stimolo ben prima che dal rigore; 3) le misure atte a stimolare l’economia (anche finanziate in deficit) non sono quelle invocate da taluni – nuova spesa –ma quelle liberali, ovvero meno tasse. Per rilanciare il Paese, si richiedono originalità di pensiero e una guida politica di alto profilo: in altre parole, anche posizioni forti in Europa e la modifica di non pochi trattati. D’altro canto, si può sostenere che paradossalmente i nostri esponenti politici non siano stati poco europeisti in passato, ma lo siano stati troppo. E per le ragioni e nei modi sbagliati. La costruzione europea infatti, oltre che una grande aspirazione, è stata anche un grande alibi per la politica italiana. Fra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quando sono incominciati a venire al pettine i nodi economici della costruzione della nostra democrazia (pensioni e sanità, spesa e debito pubblico), quando si è capito che il nostro sistema politicocostituzionale non funzionava più adeguatamente, si è cercato di far risolvere i problemi a Bruxelles. Con una sorta di dismissione di ruolo, si è divenuti sempre più obbedienti a norme che provenivano da fuori, decise da organi che in sostanza non rispondono elettivamente a nessuno. Una perdita di sovranità che esprimeva la difficoltà del ceto politico a proporre riforme che non fossero indotte dall’Europa e che fu vissuta quasi come una conquista. Insomma, l’europeismo per sentirsi a là page. Questo declassamento non ha aiutato certo il nostro Paese nel sostenere le proprie ragioni con gli altri partner europei. Inoltre, il problema europeo, oltre che economico, è un problema politico. Ci si nasconde troppo spesso dietro a un dito. Si parla spesso del ruolo dell’Unione Europea in politica estera, rivolgendo a essa numerosissime critiche a seguito del mancato decollo come entità compiuta e unita di Stati europei. L’Unione Europea di oggi, va riconosciuto, è divenuta un’alleanza estremamente complessa e problematica, ma soprattutto rischia di perdere il senso iniziale per cui fu creata. Il cammino verso un’identità comune di tipo statunitense è difficilmente perseguibile, mentre i conflitti interni tra gli Stati membri non sono per niente banali. L’Unione Europea, che doveva avere una politica estera forte e coesa e che doveva divenire la prima economia mondiale, non si è mai realizzata. E insieme a essa non si sono nemmeno gettate le basi che avrebbero dovuto garantire la convivenza pacifica tra tutti gli Stati membri. Ovviamente ci sono numerosi e continui tentativi della politica comunitaria di mantenere la coesione politica dell’alleanza, talora con metodi sbagliati. La lotta per il controllo e per la supremazia all’interno dell’Ue è aspra. Alcune grandi potenze europee hanno relazioni di partenariato più importanti, addirittura fuori dal cerchio Ue, e percepiscono molti dei membri nell’Unione come veri e propri rivali politici. Un esempio lampante potrebbe essere l’evidentissima rivalità politica tra la Germania e il Regno Unito o tra il Regno Unito e la Francia. Inoltre, le differenze sono ancora assai marcate tra i Paesi della vecchia Europa (prima dell’allargamento) e i nuovi arrivati. In un ambiente così variegato, dove le potenzialità politico-economiche e militari dei Paesi membri sono così differenziate, la lotta per la supremazia diventa inevitabile. Considerando il fatto che le relazioni internazionali si basano soprattutto (ancor oggi è evidente) sulla legge del più forte, lo sfruttamento dello spazio comunitario per la propria affermazione e per il proprio dominio diventa un comportamento naturale degli Stati sovrani più forti, come la Francia, la Germania e il Regno Unito.
Mentre l’Italia non ha mai avuto la forza per tentare il raggiungimento di un ruolo di riferimento politico-regionale e ha sempre condotto una politica estera molto neutrale, soprattutto all’interno dello spazio comunitario, quasi alla stregua di un Paese debole. Tutte le considerazioni svolte non vogliono sostenere la tesi dell’uscita dall’euro o dall’Europa. L’idea di un’Europa dei popoli, più fortemente coesa, va idealmente condivisa. Occorre però affrontare senza tentennamenti il tema della nostra effettiva capacità d’incidere in questo consesso, chiedendo la modifica di politiche
e accordi oggi vigenti che riteniamo in contrasto con i nostri interessi. Altrimenti i nostri sforzi interni rischierebbero di essere insufficienti.

Massimo Blasoni

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