LA SPESA PUBBLICA

di Massimo Blasoni

Il livello alto e soprattutto poco produttivo della nostra spesa è un
fatto assodato. È pletorico ricordare le diecimila sedi ministeriali o i
costi di un sistema pensionistico troppo generoso nel passato e di un
esorbitante impiego pubblico. Non serve rammentare la sua crescita
inarrestabile dal dopoguerra a oggi e la sequela di sprechi di cui la
maggioranza di noi ha di norma un’esperienza diretta. Tanto per dare
un’idea il rapporto tra spesa e pil era del 31% nel 1937 e rimase stabile
nei decenni successivi arrivando a superare la soglia del 40% solo alla
fine degli anni ’70. Il rapporto crebbe ancora negli anni successivi e la
spesa arrivò a rappresentare il 50% dell’intero prodotto interno lordo.
Al di là dell’enorme dimensione della spesa, quello che va rimarcato è
l’incapacità italiana di porre un freno al suo incremento malgrado la
grave crisi. La spesa pubblica aumenta in Italia in rapporto al pil dal
47,8% del 2008 al 51,1% del 2014: un balzo in avanti, durante la crisi,
di 3,3 punti percentuali e superiore alla media dei Paesi dell’Unione
Europea (+1,6%). La Spagna fa meglio di noi (+2,5%) e la Germania
rimane sostanzialmente stabile. Scende invece il Regno Unito che
riesce a tagliare la sua spesa di 2,2 punti percentuali sul pil. Questi
dati tengono conto degli interessi sul debito perché se il riferimento
fosse alla spesa primaria si dovrebbe rilevare che siamo tra i pochissimi
in Europa che la vedono in aumento. Se poi dalle percentuali
sul pil passiamo ai valori assoluti ci accorgiamo che la nostra spesa
è passata da 780 miliardi nel 2008 agli 826 del 2014. Colpisce che vi
sia incremento, malgrado gli investimenti scendano. Insomma cresce
molto la parte corrente (stipendi, pensioni, acquisto di beni e servizi)
e si riduce invece quella per investimenti (strade, infrastrutture). In
questo stesso periodo l’Italia ha tagliato del 30% la spesa pubblica per
investimenti, che è passata dai 54,2 miliardi ai 38,3 dello scorso anno.
Mentre Germania e Francia sono rimaste stabili (con una contrazione
rispettivamente dello 0,1% e dello 0,3%). Dunque spendiamo di più
per la gestione corrente che per ammodernare il Paese e, anzi, i costi
pubblici crescono malgrado il forte taglio degli investimenti.
Pare interessante capire anche quali voci di spesa aumentino e
quali si riducano. Dal 2008 al 2014 – il periodo di riferimento – si
è tagliata la spesa per l’istruzione di sei miliardi (da 71 a 65) che invece nell’area euro è cresciuta. Si è anche ridotta di 1,8 miliardi la
spesa per la cultura, mentre sono salite quelle per la salute e per la
sicurezza. In crescita anche la spesa per le politiche sociali (+30%
gli invalidi civili) e quella per le pensioni e per l’impiego pubblico.
Il confronto con Paesi come il Regno Unito è impietoso. Lì la spesa
pubblica primaria è stata effettivamente ridotta. E i livelli di crescita
sono decisamente superiori ai nostri.
Il governo di David Cameron ha ridotto tra il 2010 e il 2013 la
spesa di una quantità che, tradotta in termini italiani, equivale a 16
miliardi di euro l’anno. In un triennio sono quasi 50 miliardi di minori
spese. Oggi l’economia britannica, nonostante sia stata colpita da una
crisi finanziaria più grave di quella che ha investito l’Italia, cresce tra il
2 e il 3% annuo. In Italia la crescita non ha superato lo 0,9% nel 2015.
Da noi la spending review è rimasta nel cassetto. Prima i dieci
incaricati da Padoa-Schioppa, poi nel 2012 Enrico Bondi, poi Piero
Giarda per arrivare con il governo Letta a Carlo Cottarelli e ora a Yoram
Gutgeld e a Roberto Perotti con Renzi Presidente del Consiglio. I
commissari alla revisione della spesa sono stati molteplici negli ultimi
anni, ma i risultati sono ben scarsi. Ovvero nulli, almeno a vedere il
segno «più» sui dati di bilancio alla voce uscite. Cottarelli stimò una
possibile contrazione strutturale dei costi (cioè durevole nel tempo)
in 42,8 miliardi annui. Un obiettivo certamente ambizioso. Se si fosse
avuto, più modestamente, un andamento della spesa primaria pari
a quello della media della zona euro dal 2010 a oggi, il risparmio
sarebbe quest’anno di una trentina di miliardi. L’Italia invece, pur la
più indebitata, ha visto crescere i propri costi. E non di poco. Perché
in Italia è tanto difficile ridurre la spesa? Il vero motivo risiede nel
grande spazio che Stato, regioni e comuni, in una parola la politica,
occupano nell’economia nazionale. Fintanto che quello spazio non
verrà drasticamente ridotto, la spesa potrà essere contenuta, ma non
scenderà abbastanza da consentire il taglio significativo delle tasse.
Lo Stato che spende non brilla affatto per oculatezza e se la spesa
è improduttiva non genera effetti moltiplicatori. Quegli stessi denari
in mano a famiglie e imprese, di norma, sarebbero invece un volano
per l’economia perché spesi meglio e più rapidamente. Pensandoci,
non è infondata la massima di Friedman: «Quando spendi i tuoi
soldi per te, usi la massima attenzione; quando spendi i tuoi soldi per gli altri, stai attento a quanto spendi, ma non alla qualità di cosa
compri; quando spendi i soldi degli altri per te, stai attento a cosa
compri, ma non a quanto spendi; quando infine spendi i soldi degli
altri per gli altri, spesso non ti interessa né cosa compri né quanto
spendi». Come spesso avviene quando a comprare è lo Stato.

tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni


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