Solidarietà, regole e mercato

di Massimo Blasoni 

La critica che più sovente viene mossa alla tesi della privatizzazione è che il mercato non conosce solidarietà. È si efficiente, ma proprio per questo finisce per penalizzare i più deboli. Si può affermare il contrario, ovviamente con alcune precisazioni. Solo un sistema efficiente può garantire adeguate risorse alla solidarietà, senza che questa rappresenti un gravame insostenibile. E a patto ovviamente che la solidarietà non sia, come avviene in alcuni casi, il favorire l’imporsi di comportamenti opportunisti. Troppo Stato infatti invade ogni ambito e ci deresponsabilizza: occorre contrapporsi sia all’assenza di solidarietà che a comportamenti di tipo assistenzialista. In verità non si da mercato senza fondamenti di ordine etico. Non è un caso se a fondare l’economia moderna è stato un filosofo morale, Adam Smith, che per tutta la vita ha scritto e riscritto due opere: le già citate Ricchezza delle nazioni, in cui indaga le logiche delle interazioni spontanee e di mercato, e La teoria dei sentimenti morali, in cui l’attenzione è in primo luogo sulla “ simpatia” quale naturale disposizione a  riconoscersi nell’altro e a condividerne le esperienze interiori. Morale ed economia si muovono assieme fin dall’inizio, e una società di mercato non può prescindere da taluni valori. La società liberale esige moralità e, per giunta, finisce per produrre una cultura di rispetto reciproco. Quando Montesquieu nella sua Bordeaux portuale aperta al mondo parlava di “doux commerce” (dolce commercio) intendeva proprio evidenziare come le relazioni di mercato conducano a migliorare l’animo. Di norma un commerciante è più cortese di un impiegato delle poste. Per chi si offre sul mercato, il successo è legato a questa capacità di soddisfare le attese del suo interlocutore. Lo Stato si impone, il mercato no. Chiariamo, privatizzare non deve tradursi nell’eliminazione di un sistema di welfare a sostegno pubblico.Lo vorremmo però meglio gestito, e più equo. La sanità privata, ne trattiamo in seguito, deve garantire un miglior funzionamento e non certo rappresentare un intollerabile discrimine tra chi può e chi non può accedervi. Così l’università. Universalità e merito però vanno e possono essere coniugati.

Tutti condividiamo l’idea di garantire un’uguale assistenza sanitaria all’universalità dei soggetti che risiedono in un determinato territorio. Riteniamo questo un diritto “ripetibile” all’infinito e solo parzialmente a carico del singolo: mi è permesso andare al pronto soccorso ogni qual volta ne abbia la  necessità. E lo stesso principio vale per gli esami, le visite, gli interventi. Per l’università, invece, il modello è sensibilmente diverso. Quello che la società deve garantire a tutti i meritevoli è l’accesso ad un percorso universitario coerente con il mondo in cui viviamo: nessuno si sognerebbe di teorizzare un modello in cui qualcuno possa vivere fino a sessant’anni facendo lo studente, prendendo dieci lauree o rimanendo fuori corso a vita a spese della collettività.

Distinguere la previdenza dall’assistenza e ipotizzare una gestione di mercato dei contributi accantonati dai lavoratori è necessario. Pressoché ognuno di noi nutre la convinzione che il sistema pensionistico italiano funzionerebbe molto meglio se il denaro versato agli enti previdenziali fosse stato impiegato con criteri economici. Una minore estensione  del perimetro di azione dello stato e l’incremento degli spazi di libertà dell’individuo non vogliono certo dire assenza di  politica. Ma è proprio per i deboli che sarebbe utile, anzi: doveroso, incentivare il principio della libera scelta. Viviamo in uno stato modellato sul novecentesco concetto di Welfare State, un sistema particolarmente attento ai bisogni ma molto distratto rispetto alle persone portatrici di quei bisogni. Quello che è concretamente accaduto in questi anni è che si sono stratificati provvedimenti legislativi e misure di sostegno ai più deboli immaginate dentro moderne torri d’avorio, senza alcuna corrispondenza con la realtà di chi doveva essere destinatario di quei benefici e, cosa più importante, improntate ad un’unica categoria informatrice: lo stato tuttologo. Dalla sanità alle pensioni, dalla scuola all’edilizia popolare, dai certificati alle autorizzazioni: tutto sembra potersi ricondurre sempre e soltanto al pubblico. Con un rischio: che aver posto così tanta attenzione verso la natura pubblicistica del produttore ed erogatore di quel servizio fondamentale, ha fatto perdere completamente di vista il percettore di quel servizio e il titolare di quel diritto.

È necessario – dicevamo –  che si adottino tutele a favore dei più deboli e che queste siano finanziate dalle imposte. Parimenti che ci sia un sistema anche duro di sanzioni per chi trasgredisce. Sia tra quelli che vogliono “approfittare“ del sistema sia, e soprattutto, per quelli che concorrono all’erogazione di servizi così sensibili. Una Lehman Brothers, per non dire una Parmalat, nel settore previdenziale avrebbe ovviamente effetti devastanti. Terribili dissesti che non vogliono però dire che nel mercato non siano oggi presenti e utilmente grandi banche ovvero multinazionali alimentari che concorrono, più che positivamente, alla vita economica, o che a fallire non siano talora anche gli Stati. Si presuppone ovviamente che a vigilare sul rispetto delle regole ci sia personale politico e un funzionariato  di qualità, capace di comprendere i meccanismi complessi del presente. E che le regole siano eque: la cosiddetta “gestione separata” di tanti Co.co.pro. ha prodotto nel 2013 un saldo positivo per l’INPS di circa 8 miliardi. Ognuno di quei lavoratori, spesso giovani, sa che alle regole attuali pur contribuendo non riceverà mai alcuna pensione. Il danno ai più deboli qui è tutto dello Stato.

estratto dal libro di Massimo Blasoni 

Massimo Blasoni autore di Privatizziamo!

 

 

 

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La privatizzazione radicale rappresenterebbe un nuovo approccio perdurante nel tempo

Le tesi sulle privatizzazioni, da Friedman a tutta la scuola di Chicago, sono note. Tuttavia anche senza credere al mercato perfetto, alla sua capacità di autoregolarsi, chi fra noi non condivide l’obiettiva superiorità della performance privata quando si tratta di produrre o erogare beni e servizi? Il liberismo non può essere sostenuto in termini ideologici o taumaturgici, l’utopia del mercato in luogo dell’utopia proletaria. Tuttavia lo Stato operante non è efficiente: si rivela inadeguato. Senza il vaglio del mercato, dei numeri, senza adeguati incentivi non si creano connessioni virtuose.

La spesa pubblica italiana nel 2013 (dati DEF) è pari a 826 miliardi . Le spese correnti, al netto degli interessi, sono state di 692 miliardi, le voci principali sono state: redditi da lavoro dipendente, 164 miliardi; consumi intermedi 134 miliardi a cui aggiungere le prestazioni sociali per 328 miliardi e altre spese correnti per circa 66 miliardi. Affidare alla gestione privata una parte rilevante delle attività connesse a queste spese sortirebbe una forte contrazione dei costi e il miglioramento dei servizi. Potrebbe l’impiego pubblico, circa 3 milioni e mezzo di occupati, diventato in larga misura privato, ridursi in numero e garantire di più in termini di produttività? Sì, a leggere i dati attuali OCSE che assegnano un indice di produttività nettamente migliore al  comparto privato. È possibile ridurre sensibilmente i consumi intermedi? Almeno per 30 miliardi secondo il piano di spending rewiew. E la pur importante razionalizzazione dell’attuale spesa non è certo l’elemento più rilevante. La privatizzazione radicale rappresenterebbe in quest’ottica un nuovo approccio perdurante nel tempo. Un’efficienza stabilita più da logiche di mercato che dalla decisione politica perché, a tassazione fortemente ridotta, parte rilevante delle risorse resterebbero nelle mani dei cittadini. E non dobbiamo temere la perdita di controllo perché alla politica compete il compito di vigilare e regolamentare, non di gestire.

Estratto dal libro Privatizziamo! di Massimo Blasoni

 

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Privatizziamo?

di Massimo Blasoni

Supponiamo, superata la sostanziale illicenziabilità, di privatizzare larga parte dell’attività della pubblica amministrazione senza per questo perdere di vista la funzione amministrativa nel senso della cura degli interessi dell’intera collettività. Insomma gli organi politici – sfoltiti- restano come la capacità di spesa – seppur contratta- resta l’interesse pubblico di taluni servizi, ma tutta o quasi l’attuazione è privata. Vengono dismesse le imprese pubbliche, le partecipazioni e vengono esternalizzate larga parte delle attività e degli organici della miriade di enti territoriali e non. La stessa idea di assoluta supremazia dell’amministrazione pubblica è rivedibile come l’attuale perimetro di applicazione del diritto amministrativo: l’attività amministrativa in passato è stata regolata dalle stesse norme che disciplinano i rapporti tra privati. Si può trovare un bilanciamento tra le esigenze di imparzialità, poteri pubblici e l’attuale ipertrofia amministrativa. Ipotizziamo a grandi linee che le imposte vengano sensibilmente abbassate e una parte dei servizi attualmente resi dallo Stato siano invece acquisiti dai singoli sul mercato. Approssimativamente quei servizi, sostenibili economicamente, dove riteniamo normale pagare in ragione di quanto consumiamo. E’ avvenuto per la telefonia, un tempo pubblica. Quando nel 1997 venne emessa sul mercato le rimostranze e le perplessità non furono poche. Oggi possiamo constatare come l’apertura del mercato alla concorrenza abbia portato innegabili vantaggi all’utenza finale, dal momento che negli ultimi 10 anni le tariffe telefoniche sono calate dell’11,5%. Nello stesso arco temporale, solo per fare un esempio, le tariffe per l’acqua – ancora pubblica – sono aumentate del 78,6%. In questo solco si potrebbe inserire anche il nostro sistema previdenziale.

Altri servizi, per la loro natura, presuppongono che tutti concorriamo attraverso le imposte al loro costo senza che necessariamente li utilizziamo nella stessa misura: è così per l’università, la sanità, il welfare. Ma cosa vieta che di caso in caso la gestione del servizio sia effettuata da soggetti privati in regime di concessione ovvero regolata dal meccanismo dei voucher spesi dal cittadino dove preferisce? Questo non vorrebbe dire privare lo Stato della funzione o del compito di stabilire regole e vigilare, piuttosto perseguire efficienza, concorrenza e libera scelta, scindendo l’interesse pubblico dalla sua attuazione.

Sarebbe per noi discriminante che gli impiegati dell’anagrafe o quelli del catasto o delle poste fossero dipendenti di una società privata piuttosto che della pubblica amministrazione?

Se è vero che la gestione pubblica è sostanzialmente meno efficace di quella privata per congeniti difetti (burocrazia, gestione politicizzata, produttività) allora occorre fortemente limitarla. Sottratte per ovvie ragioni, all’ipotesi magistratura, forze dell’ordine e poco altro, privatizzando o delegando al privato la gestione dei servizi, il livello di produttività di norma sale così come l’efficienza. Scendono i costi, anche considerando il profitto dell’impresa, come avviene pressoché sempre quando vi è competizione.

Del rischio di sperequazioni, della tutela dei più deboli da prevaricazioni mercatiste e delle garanzie di erogazione dei servizi parleremo di seguito. Per ora diciamo che la prospettazione proposta è fortemente liberista, ma non irrealizzabile.

Il fatto che poste, ferrovie, acqua, energia, sanità, scuola siano sostanzialmente pubbliche, non è frutto di un ordine necessario: perché lo Stato fa meglio, perché meglio garantisce i cittadini. Spesso si tratta di servizi o istituzioni che di norma sono stati solo in un secondo tempo incamerati e nazionalizzati, più con una logica di dominio che sulla scorta di un’esigenza di efficienza o di solidarietà. I primi Ospedali, nacquero come espressione della pietà cristiana e solo in pieno Rinascimento entrano nell’orbita pubblica. Quando nel XII secolo sorsero le prime Università, da Bologna e Parigi, da Padova a Salamanca, erano rette da associazioni corporative di studenti o professori che si occupavano tanto della didattica che della struttura organizzativa interna. Solo dal XIV secolo gli Atenei diventarono in massima parte pubblici e lo stato iniziò a stipendiare direttamente i docenti. Il sistema scolastico universitario in Italia non brilla certo per qualità e la sua natura fondamentalmente pubblica sembra essere la conseguenza più del tentativo di garantire un certo controllo da parte dello Stato, in un settore così sensibile, che di evitare elitarismi e sperequazioni. La scuola da noi è quasi sempre statale anche perché lo Stato unitario aveva bisogno, per citare d’Azeglio, di fare “gli italiani”.

 

di Massimo Blasoni

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SERENI ORIZZONTI FA ACQUISIZIONI IN GERMANIA.

La mia intervista su LiberoEconomia.

Testata: LiberoEconomia
Autore: Massimo Blasoni

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QUESTO MOMENTO DIVENTA SEMPRE MENO SOSTENIBILE.

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LA MATERIA PRIMA PIÙ IMPORTANTE È L’INTELLIGENZA.

L’Italia ha sempre scontato la penuria di materie prime. Nel tempo digitale in cui stiamo entrando in parte le cose cambiano e quello che conta è l’intelligenza, che non dovrebbe farci difetto. Occorrerebbe però impiegare risorse in innovazione, cultura, infrastrutture fisiche e informatiche. Investiamo in ricerca e formazione meno di un quarto di quello che spende la Germania. Soprattutto per questo non cresciamo.
Oggi la mia intervista su Il Giornale.

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LA REALTÀ PUÒ ESSERE CAMBIATA.

Ho sempre pensato che le cose non debbano essere senza fine e per forza immutabili. La realtà può essere cambiata. Ci credo come imprenditore ma sono convinto che questo valga anche per il nostro Paese. I denari che obbligatoriamente versiamo all’Inps per le nostre pensioni vengono utilizzati malissimo. Si potrebbe fare diversamente… ma ci vuole coraggio. Oggi su La Verità di Belpietro il mio parere.

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Da dove arriverà la prossima bolla speculativa.

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Video Massimo Blasoni – Le chiacchere stanno a zero

Ieri a Mattino 5 sul tema lavoro. Spunto la vicenda di Abramo Zampella, un uomo di 46 anni che ha perso il lavoro, con una figlia malata. L’occupazione in Italia si sviluppa solo se l’economia funziona e le aziende sono motivate a investire. Nel nostro Paese, però, è molto difficile. Tasse, burocrazia, poche infrastrutture, anche per questo cresciamo meno degli altri Paesi europei. Mentre intervenivo, però, ho capito che di fronte a un problema tangibile diventava ridicolo questionare con gli altri ospiti sui temi di economia. Ho fatto l’unica cosa concreta che potevo fare. Ho proposto un posto di lavoro al signor Abramo. Mi è piaciuto quello che aveva detto: non voglio aiuti ma un’occupazione.


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cinquantamila.it

La mia biografia è apparsa sul sito cinquantamila.it, curato ed ideato da Giorgio dell’Arti, che vanta cinquantamila biografie di italiani illustri.

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