La privatizzazione radicale rappresenterebbe un nuovo approccio perdurante nel tempo

Le tesi sulle privatizzazioni, da Friedman a tutta la scuola di Chicago, sono note. Tuttavia anche senza credere al mercato perfetto, alla sua capacità di autoregolarsi, chi fra noi non condivide l’obiettiva superiorità della performance privata quando si tratta di produrre o erogare beni e servizi? Il liberismo non può essere sostenuto in termini ideologici o taumaturgici, l’utopia del mercato in luogo dell’utopia proletaria. Tuttavia lo Stato operante non è efficiente: si rivela inadeguato. Senza il vaglio del mercato, dei numeri, senza adeguati incentivi non si creano connessioni virtuose.

La spesa pubblica italiana nel 2013 (dati DEF) è pari a 826 miliardi . Le spese correnti, al netto degli interessi, sono state di 692 miliardi, le voci principali sono state: redditi da lavoro dipendente, 164 miliardi; consumi intermedi 134 miliardi a cui aggiungere le prestazioni sociali per 328 miliardi e altre spese correnti per circa 66 miliardi. Affidare alla gestione privata una parte rilevante delle attività connesse a queste spese sortirebbe una forte contrazione dei costi e il miglioramento dei servizi. Potrebbe l’impiego pubblico, circa 3 milioni e mezzo di occupati, diventato in larga misura privato, ridursi in numero e garantire di più in termini di produttività? Sì, a leggere i dati attuali OCSE che assegnano un indice di produttività nettamente migliore al  comparto privato. È possibile ridurre sensibilmente i consumi intermedi? Almeno per 30 miliardi secondo il piano di spending rewiew. E la pur importante razionalizzazione dell’attuale spesa non è certo l’elemento più rilevante. La privatizzazione radicale rappresenterebbe in quest’ottica un nuovo approccio perdurante nel tempo. Un’efficienza stabilita più da logiche di mercato che dalla decisione politica perché, a tassazione fortemente ridotta, parte rilevante delle risorse resterebbero nelle mani dei cittadini. E non dobbiamo temere la perdita di controllo perché alla politica compete il compito di vigilare e regolamentare, non di gestire.

Estratto dal libro Privatizziamo! di Massimo Blasoni

 

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Privatizziamo?

di Massimo Blasoni

Supponiamo, superata la sostanziale illicenziabilità, di privatizzare larga parte dell’attività della pubblica amministrazione senza per questo perdere di vista la funzione amministrativa nel senso della cura degli interessi dell’intera collettività. Insomma gli organi politici – sfoltiti- restano come la capacità di spesa – seppur contratta- resta l’interesse pubblico di taluni servizi, ma tutta o quasi l’attuazione è privata. Vengono dismesse le imprese pubbliche, le partecipazioni e vengono esternalizzate larga parte delle attività e degli organici della miriade di enti territoriali e non. La stessa idea di assoluta supremazia dell’amministrazione pubblica è rivedibile come l’attuale perimetro di applicazione del diritto amministrativo: l’attività amministrativa in passato è stata regolata dalle stesse norme che disciplinano i rapporti tra privati. Si può trovare un bilanciamento tra le esigenze di imparzialità, poteri pubblici e l’attuale ipertrofia amministrativa. Ipotizziamo a grandi linee che le imposte vengano sensibilmente abbassate e una parte dei servizi attualmente resi dallo Stato siano invece acquisiti dai singoli sul mercato. Approssimativamente quei servizi, sostenibili economicamente, dove riteniamo normale pagare in ragione di quanto consumiamo. E’ avvenuto per la telefonia, un tempo pubblica. Quando nel 1997 venne emessa sul mercato le rimostranze e le perplessità non furono poche. Oggi possiamo constatare come l’apertura del mercato alla concorrenza abbia portato innegabili vantaggi all’utenza finale, dal momento che negli ultimi 10 anni le tariffe telefoniche sono calate dell’11,5%. Nello stesso arco temporale, solo per fare un esempio, le tariffe per l’acqua – ancora pubblica – sono aumentate del 78,6%. In questo solco si potrebbe inserire anche il nostro sistema previdenziale.

Altri servizi, per la loro natura, presuppongono che tutti concorriamo attraverso le imposte al loro costo senza che necessariamente li utilizziamo nella stessa misura: è così per l’università, la sanità, il welfare. Ma cosa vieta che di caso in caso la gestione del servizio sia effettuata da soggetti privati in regime di concessione ovvero regolata dal meccanismo dei voucher spesi dal cittadino dove preferisce? Questo non vorrebbe dire privare lo Stato della funzione o del compito di stabilire regole e vigilare, piuttosto perseguire efficienza, concorrenza e libera scelta, scindendo l’interesse pubblico dalla sua attuazione.

Sarebbe per noi discriminante che gli impiegati dell’anagrafe o quelli del catasto o delle poste fossero dipendenti di una società privata piuttosto che della pubblica amministrazione?

Se è vero che la gestione pubblica è sostanzialmente meno efficace di quella privata per congeniti difetti (burocrazia, gestione politicizzata, produttività) allora occorre fortemente limitarla. Sottratte per ovvie ragioni, all’ipotesi magistratura, forze dell’ordine e poco altro, privatizzando o delegando al privato la gestione dei servizi, il livello di produttività di norma sale così come l’efficienza. Scendono i costi, anche considerando il profitto dell’impresa, come avviene pressoché sempre quando vi è competizione.

Del rischio di sperequazioni, della tutela dei più deboli da prevaricazioni mercatiste e delle garanzie di erogazione dei servizi parleremo di seguito. Per ora diciamo che la prospettazione proposta è fortemente liberista, ma non irrealizzabile.

Il fatto che poste, ferrovie, acqua, energia, sanità, scuola siano sostanzialmente pubbliche, non è frutto di un ordine necessario: perché lo Stato fa meglio, perché meglio garantisce i cittadini. Spesso si tratta di servizi o istituzioni che di norma sono stati solo in un secondo tempo incamerati e nazionalizzati, più con una logica di dominio che sulla scorta di un’esigenza di efficienza o di solidarietà. I primi Ospedali, nacquero come espressione della pietà cristiana e solo in pieno Rinascimento entrano nell’orbita pubblica. Quando nel XII secolo sorsero le prime Università, da Bologna e Parigi, da Padova a Salamanca, erano rette da associazioni corporative di studenti o professori che si occupavano tanto della didattica che della struttura organizzativa interna. Solo dal XIV secolo gli Atenei diventarono in massima parte pubblici e lo stato iniziò a stipendiare direttamente i docenti. Il sistema scolastico universitario in Italia non brilla certo per qualità e la sua natura fondamentalmente pubblica sembra essere la conseguenza più del tentativo di garantire un certo controllo da parte dello Stato, in un settore così sensibile, che di evitare elitarismi e sperequazioni. La scuola da noi è quasi sempre statale anche perché lo Stato unitario aveva bisogno, per citare d’Azeglio, di fare “gli italiani”.

 

di Massimo Blasoni

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SERENI ORIZZONTI FA ACQUISIZIONI IN GERMANIA.

La mia intervista su LiberoEconomia.

Testata: LiberoEconomia
Autore: Massimo Blasoni

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QUESTO MOMENTO DIVENTA SEMPRE MENO SOSTENIBILE.

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LA MATERIA PRIMA PIÙ IMPORTANTE È L’INTELLIGENZA.

L’Italia ha sempre scontato la penuria di materie prime. Nel tempo digitale in cui stiamo entrando in parte le cose cambiano e quello che conta è l’intelligenza, che non dovrebbe farci difetto. Occorrerebbe però impiegare risorse in innovazione, cultura, infrastrutture fisiche e informatiche. Investiamo in ricerca e formazione meno di un quarto di quello che spende la Germania. Soprattutto per questo non cresciamo.
Oggi la mia intervista su Il Giornale.

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LA REALTÀ PUÒ ESSERE CAMBIATA.

Ho sempre pensato che le cose non debbano essere senza fine e per forza immutabili. La realtà può essere cambiata. Ci credo come imprenditore ma sono convinto che questo valga anche per il nostro Paese. I denari che obbligatoriamente versiamo all’Inps per le nostre pensioni vengono utilizzati malissimo. Si potrebbe fare diversamente… ma ci vuole coraggio. Oggi su La Verità di Belpietro il mio parere.

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Da dove arriverà la prossima bolla speculativa.

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Video Massimo Blasoni – Le chiacchere stanno a zero

Ieri a Mattino 5 sul tema lavoro. Spunto la vicenda di Abramo Zampella, un uomo di 46 anni che ha perso il lavoro, con una figlia malata. L’occupazione in Italia si sviluppa solo se l’economia funziona e le aziende sono motivate a investire. Nel nostro Paese, però, è molto difficile. Tasse, burocrazia, poche infrastrutture, anche per questo cresciamo meno degli altri Paesi europei. Mentre intervenivo, però, ho capito che di fronte a un problema tangibile diventava ridicolo questionare con gli altri ospiti sui temi di economia. Ho fatto l’unica cosa concreta che potevo fare. Ho proposto un posto di lavoro al signor Abramo. Mi è piaciuto quello che aveva detto: non voglio aiuti ma un’occupazione.


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cinquantamila.it

La mia biografia è apparsa sul sito cinquantamila.it, curato ed ideato da Giorgio dell’Arti, che vanta cinquantamila biografie di italiani illustri.

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LAVORARE IN ITALIA NON È SEMPLICE.

Mi è venuta a salutare una mia dipendente del Friuli Venezia-Giulia che, purtroppo, perde il posto di lavoro perché non è in possesso della qualifica di operatore socio sanitario: sono molto arrabbiato!
Correttamente, da qualche anno, la normativa prevede il possesso del titolo anche per chi già da tempo lavorava nelle Residenze per anziani. Il problema, però, è che vengono indetti pochissimi corsi a fronte di migliaia di richieste. La stragrande maggioranza di quelli che, con buona volontà, vorrebbero partecipare vi resta fuori. Così una madre con figli non può lavorare ed io sono costretto a cercare altrove (spesso all’estero) nuovo personale. In Italia non sono adeguate né le normativa né le politiche attive del lavoro. Questa signora probabilmente dovrà richiedere il reddito di cittadinanza, malgrado preferisca di gran lunga lavorare.
Ne ho scritto ieri su Il Giornale.

 

Testata: Il Giornale
Autore: Massimo Blasoni

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