Tratto dal libro “Privatizziamo!Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni
Ai temi europei fa da sfondo un quadro più ampio, globale, caratterizzato non solo da questioni economiche, ma anche e soprattutto da una trama in cui si intrecciano ragioni politiche e culturali. Le tensioni a est in Europa, il rapporto con l’Islam, i flussi di immigrazione e la stessa trasformazione del tessuto sociale (quell’insieme di etnia, storia e tradizioni) ci segnano profondamente. Alla propensione revanscista ed espansiva dell’Islam politico, al suo aggregarsi su basi tradizionali e d’integralismo religioso, ad esempio, si è di norma risposto con il multiculturalismo, convinti che la convivenza potesse reggersi su due pilastri. Il primo: la tolleranza.
Rispetto alle comunità islamiche ma anche ad altre in Italia non si pretende l’integrazione, ma si pensa che accettare pienamente le diversità possa garantire l’assenza di conflitti. Anche se questo comporta la rinuncia ad alcuni aspetti identitari, come a una parte delle nostre tradizioni. La tolleranza assunta a monumento non basta, però, se molti di quelli che ci stanno di fronte pensano che ci siano degli spazi da occupare, che il proprio obiettivo etico sia l’islamizzazione del mondo. Ovviamente va sostenuto il principio di eguaglianza, ma è ben diverso pensare che in uno Stato a maggioranza cristiana le minoranze possano liberamente professare la propria religione piuttosto che togliere i crocifissi dalle classi in omaggio alla parità. Così come è diverso insegnare religione cattolica, riconoscendo il diritto a un diverso o a nessun credo, dal pareggiare tutte le religioni in omaggio a un politically correct portato al parossismo. Il timore di conculcare l’altrui libertà e di apparire razzisti sfiora talvolta il paradosso. Insomma, come se il più forte, il più esperto dovesse in ogni caso rinunciare a qualcosa di sé in omaggio alla pace con il più debole, ma risoluto. Saremmo altrettanto tolleranti con l’insistente venditore di strada se fosse italiano? C’è qualcosa che non funziona se la sola tautologia insita nel definirsi bianco finisce per essere percepita come una forma di allignante razzismo. E c’è da chiedersi se più che rinunciare a qualcosa di sé, chi ospita non debba pretendere passi concreti verso l’integrazione da parte di chi viene ospitato. Il secondo pilastro riguarda il ruolo salvifico delle regole. Vi è la convinzione che la convivenza di molteplici culture senza assimilazione possa reggersi sulla base di regole neutrali e accettate da tutti: la democrazia, la parità dei sessi, l’uguaglianza di fronte alla legge, l’imperativo categorico di non uccidere. La condivisione insomma di un quadro valoriale «naturale» come garanzia per la coesistenza di etnie diverse. Si sbaglia però a vedere le regole come valori universali e non già come il prodotto di valori storici propri di certe culture e non di altre. Perché pressoché non ci sono valori assoluti e condivisi o, meglio, la storicizzazione di questi valori ha prospettive e punti di vista diversi. Dati per la nostra società ormai acquisiti (l’inaccettabilità dell’infibulazione o della lapidazione delle adultere prevista dai codici in Iran) non lo sono invece per altre. La nostra prospettiva giusnaturalistica che teorizza diritti umani connaturati agli individui che precedono ogni struttura statale non è quella buddista, induista o del socialismo reale. E non si tratta di aspetti meramente culturali: l’asseritamente acquisita laicità dello Stato ha come contraltare l’islamismo costituzionale di più Paesi arabi. La stessa idea di democrazia va cambiando e non rappresenta un modello prevalente nel mondo. Nemmeno il diritto alla vita resta un valore assoluto. A riprova si pensi che, in seno alla nostra stessa comunità, temi come l’aborto, l’eutanasia o la pena di morte non hanno risposte univoche nel tempo e nei diversi Paesi dell’Occidente. I due pilastri non reggono perché non ci sono regole astrattamente condivise. Il multiculturalismo funziona solo sulla precondizione che due culture siano entrambe decise ad accettare l’altra e non a convertirla. E restando alla compresenza di culture nel medesimo territorio nazionale, anche posta la reciproca accettazione, resta il problema che non si sta parlando di comunità chiuse e ognuna impegnata a seguire le proprie regole non interferendo con quelle altrui. La commistione, nella vita di ogni giorno, tra gli uni e gli altri è ovviamente costante. E non possono esserci due leggi (monogamia/ poligamia) o leggi che astrattamente rispettino ogni aspetto di culture così profondamente diverse. Nella storia più o meno recente si è assistito a un deficit di tolleranza. Spesso le regole sono state poste da chi ha vinto e con la forza. Vae victis. Non è certo questa la strada. Oggi si è assunta una posizione quasi opposta però. È lecito chiedersi se non sia preferibile un modello che coniughi il rispetto per la cultura di chi viene, con l’esigenza di porre in atto misure volte all’integrazione. La conoscenza della lingua e l’accettazione di principi base di cittadinanza come condizione per la permanenza. Tutto questo non è poco liberale. Perché se è vero che non va conculcata la libertà altrui, è altrettanto vero che va preservata la propria. È necessario il patto sociale, con cui l’individuo accetta di sottrarre qualcosa alla propria potenzialmente illimitata libertà a beneficio di regole, di leggi democraticamente stabilite. Uscire dalla crisi è per noi anche assumerci la responsabilità di affermare queste regole. Per diventare cittadini di un nuovo Paese, pur senza perdere la propria libertà, occorre fare intimamente propri alcuni tratti culturali del Paese ospitante e rispettare (non solo formalmente) le scelte democraticamente assunte. Ci sono democrazie pigre, altre più vivaci e autorevoli. Sono preferibili le seconde.