Tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare L’Italia” di Massimo Blasoni
Tra i motivi della minor competitività imputabili agli imprenditori più che al sistema Italia o alla crisi internazionale, certo svetta la scarsa capacità di adeguarsi al nuovo scenario, senza svalutazione competitiva e con Paesi a più basso costo del lavoro. Questa incapacità è una delle facce della limitata attitudine a innovare nel suo complesso. La nostra impresa fatica di più nei settori ad alto contenuto tecnologico, ci è difficile adeguarci a processi di alta complessità quali quelli che richiede la produzione nel mondo
contemporaneo. La difficoltà a sperimentare attiene spesso all’incapacità di puntare decisamente a un rilancio su basi del tutto nuove, restando spesso ancorati a modelli di business superati e di frequente poco produttivi. Innovare, al contrario, vuol dire trovare le risposte giuste a vecchi o nuovi bisogni. Non si tratta solo d’investire denari per svecchiare le tecnologie, ma di individuare un diverso atteggiamento culturale e una nuova creatività. Vuol dire trovare altri modelli e mercati inediti, vuol dire inventare un nuovo modo di fare marketing indirizzato allo scenario globale del tempo in cui viviamo. Le nostre aziende investono poco in programmi di ricerca e sviluppo finalizzati alla creazione di prodotti e servizi davvero innovativi (a volte rischiosi da lanciare sul mercato), preferendo spesso sfruttare le (poche) risorse a disposizione come modo per coprire costi fissi rimasti scoperti o farsi finanziare cose già fatte. Non è un caso se nel periodo che va dal 2006 al 2014, secondo la Commissione europea, la resa innovativa – ovvero la capacità di innovazione – di Paesi come Lettonia, Estonia o Portogallo è cresciuta più di quella italiana. A tutto questo si lega un’altra evidente debolezza: l’incapacità cronica di parte del nostro sistema produttivo di cogliere i benefici della rivoluzione digitale. L’e-commerce in Italia è meno sviluppato che negli altri Paesi europei. Soltanto il 5,34% delle imprese italiane vende online i propri beni e servizi, una performance pari a un terzo della media europea (15,18%). Mancano talora ai nostri imprenditori una visione e una progettualità prodromiche a un’offerta davvero innovativa. Diceva Proust: «L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi». Lo si è saputo fare in passato ma non oggi, quando la sfida a livello globale richiede un drastico cambio di mentalità. Il «si è sempre fatto così» non funziona più, nemmeno in azienda. Alla bassa capacità di innovare si aggiunge in parte anche il tema della coincidenza tra proprietà e direzione, tipica del sistema imprenditoriale italiano. Una caratteristica che, pur talvolta positiva, è anche alla base di tutti i noti problemi legati al passaggio generazionale, alle difficoltà di aggregazione e all’utilizzo di un management più preparato nella direzione. Tema complesso, quello della direzione, come quello dimensionale (le nostre aziende tendono a essere relativamente piccole per il mercato globale). Ogni azienda è partita da un’idea: dal sogno di un imprenditore. Poi è cresciuta ispirata dalla visione dell’imprenditore. Nel tempo i maggiori volumi, l’innovazione tecnologica e l’anagrafe hanno reso necessaria la presenza di un manager, più capace di condurre il vascello. È questo uno schema che fa tremare i polsi a quasi ogni imprenditore stia leggendo queste righe. L’idea del passaggio delle consegne, della propria sostituibilità in quanto leader, atterrisce chi spesso ha fatto dell’azienda la propria vita e anche chi pensa, sulla scorta di Einaudi, che a spingerlo «è stata la vocazione naturale e non soltanto la sete di guadagno. Il gusto di vedere la propria azienda prosperare». Certo, il modello italiano è fortemente caratterizzato dalla coincidenza tra imprenditore e manager. Il trasferimento della proprietà e della leadership avviene spesso in famiglia, ma non porta quale conseguenza necessaria il trasferimento delle capacità. Riconoscere questo limite di governance del sistema imprenditoriale italiano non implica, però, che si sposi acriticamente la tesi opposta. Non va sottovalutato, infatti, che il modello manageriale di impronta anglosassone non ha sempre pagato. Da un lato perché alla competenza tecnica del manager non sempre si associa quella capacità visionaria che richiede non solo lo start-up delle aziende, ma anche il loro sviluppo. Dall’altro, perché la fedeltà all’azienda, che è avvertita dall’imprenditore come propria (può essere un orpello ma anche una ragione di profusione di impegno totale), non è sempre una prerogativa del management. Lo sviluppo delle imprese necessita anche di un proficuo utilizzo degli strumenti finanziari. Obbligazioni, borsa, private equity non sono strumenti adeguatamente conosciuti e utilizzati dalla nostra
impresa. La nostra borsa è arretrata rispetto a quelle dei Paesi dove hanno sede i principali mercati. Il numero di imprese quotate è di poco superiore a 200 e nel paniere principale di titoli (quello costituito dalle 40 imprese più grandi per capitalizzazione di borsa) figurano soprattutto società bancarie e assicurative, oltre a imprese provenienti dalle privatizzazioni pubbliche (alcune delle quali tutt’ora partecipate dallo Stato). C’è nei nostri imprenditori una scarsa propensione alla quotazione che non è solamente conseguenza della modesta dimensione delle aziende: è soprattutto culturale. Niente a che vedere con l’enorme mercato finanziario inglese o americano. Per capirci, nel 2013 mentre Piazza Affari registrava scambi per complessivi 540 miliardi di euro, quelli di Wall Street ammontavano a oltre 40mila miliardi di dollari.In Italia il 65% del credito è bancario e il 35% proviene da altri strumenti finanziari (Borsa, obbligazioni, fondi di investimento), mentre negli Stati Uniti il rapporto si capovolge.
In positivo possiamo solo riconoscere che l’uso non così esteso di strumenti finanziari, con eccezione del caso Parmalat e di pochi altri, ci ha preservato dal default di grosse aziende a forte partecipazione di investitori. Nel sistema globale, però, l’utilizzo non eccessivo della leva finanziaria non ci ha preservato né dalle ricadute della crisi dei subprime americani, né dalla Lehman Brothers, né da ogni altra fase della crisi finanziaria. In conclusione la nostra impresa ha luci e ombre e caratteristiche che sono forza e debolezza insieme (le dimensioni, la coincidenza di proprietà e direzione). Ne emerge un quadro, dove lo scenario internazionale non favorevole e le difficoltà direttamente ascrivibili al nostro Paese hanno come interfaccia la bassa capacità di innovare di molta parte del sistema produttivo. Resta qualcosa da dire però. Tra le molte crisi italiane quella dell’impresa è forse l’unica cui va tributato «l’onore delle armi»: l’unica che pare modesta se confrontata alle altre e l’unica che principalmente dipende da responsabilità non sue. È difficile dire quanti sono gli imprenditori in Italia, ma certo ci sono circa sei milioni di imprese piccole e grandi. Molte sono ancora capaci di crescere ed esportare, di creare sviluppo anche in condizioni di enorme svantaggio rispetto alle loro omologhe che operano in Paesi con meno tasse, burocrazia e tortuosità. Sarebbe irragionevole pensare che la prossima generazione troverà lavoro nella Pubblica Amministrazione o che la crescita economica non avrà come fulcro le aziende private. Si deve dunque scommettere sulle nostre imprese e sul coraggio dei nostri imprenditori.
Massimo Blasoni