Tratto dal libro “Privatizziamo!Ridurre lo Stato, liberare L’Italia” di Massimo Blasoni
Si sono vissute stagioni di grande sviluppo nel secondo dopoguerra, quando l’Italia è fiorita anche grazie alle condizioni demografiche e sociali che rendevano senza dubbio più facile il ruolo dell’imprenditore.
Del resto, il boom non richiedeva nemmeno forti investimenti in tecnologia; la crescita della domanda andava, di fatto, seguita e cavalcata. Un’altra fase di espansione si è avuta grazie all’eccezionale crescita
del settore terziario e anche alla ristrutturazione del nostro sistema industriale dopo la crisi globale degli anni Settanta. Oggi invece si osserva lo sviluppo impetuoso dei cosiddetti Paesi emergenti, mentre retrocediamo in tutte le classifiche – volumi, produttività, crescita – ma soprattutto perdiamo occupazione e reddito pro capite. Il modello di capitalismo italiano è fondato su un tessuto di piccole e medie imprese da alcuni ritenuto un punto di forza a dispetto di tutte le teorie economiche che postulano la sicura superiorità della grande impresa, caratterizzata, da un lato, dalla più ampia copertura della filiera produttiva e, dall’altro, dalla possibilità di gestire meglio il mercato dei beni e servizi destinati alla vendita. In effetti, il problema delle ridotte dimensioni nell’economia globale è concreto, anche se non vi è un modello valido in assoluto. La realtà è più complessa e la storia ha dimostrato come anche aziende molto contenute nelle dimensioni, per giro d’affari e per numero di dipendenti, siano riuscite a creare valore su presupposti diversi e comunque in modo ugualmente efficace. Si pensi alla nascita e allo sviluppo dei distretti, fenomeno tipicamente e orgogliosamente italiano, capaci di realizzare centri di eccellenza e competere in tutto il mondo, contribuendo al classico «made in Italy» che su scala globale, come brand, ha un valore economico davvero notevole. Ma dagli anni Novanta l’Occidente (e quindi anche noi) ha perso il primato tecnologico e, dunque, la possibilità di produrre quell’innovazione di cui prima non erano capaci i Paesi a basso costo del lavoro. Non è più così: la produzione dei Paesi emergenti è cresciuta in quantità e qualità, pur mantenendo prezzi più convenienti, e ora il brand da solo non basta, soprattutto se non vi è un coerente sviluppo dell’ambiente economico di riferimento. Le infrastrutture pubbliche inadeguate, la struttura e i livelli di efficienza della pubblica amministrazione, la fiscalità, lo scarso sviluppo del sistema concorrenziale e capitalistico a favore delle partecipazioni e dell’assistenza pubblica riservata a un ristretto numero di imprese, oltre che la scarsa maturazione del sistema finanziario, hanno imposto vincoli pesanti allo sviluppo della nostra imprenditorialità. A questo elenco si è aggiunta negli ultimi anni la crisi internazionale, inizialmente di origine finanziaria, che ha mosso i primi passi negli Stati Uniti. Si può parlare di «crisi dell’impresa italiana»? E se sì, la si può attribuire a fattori esogeni (sistema Italia, crisi globale), sostanzialmente indipendenti dalla volontà dei nostri imprenditori, oppure è il frutto di una loro scarsa propensione all’innovazione, di una loro
limitata capacità nell’affrontare i cambiamenti e cogliere le potenziali opportunità che ne derivano? A queste domande non esistono semplici risposte e, del resto, la complessità del mondo economico in cui viviamo raramente le offre. Uno dei dati che fa più riflettere è come nell’arco di pochi anni siamo scesi dal quinto all’ottavo posto tra i Paesi produttori, mentre su scala globale il peso del nostro settore manifatturiero si è ridotto a poco più del 3%. È vero che l’Italia rimane davanti alla Francia ed è seconda in Europa solo dietro alla Germania, ma bisogna certamente fare i conti con la prepotente avanzata dei Paesi emergenti. A livello globale siamo stati superati da Paesi come l’India (sesto) e il Brasile (settimo), che crescono a ritmi sostenuti, mentre il nostro pil è stagnante da più di un decennio. In secondo luogo, il saldo di natalità delle imprese ha mostrato una rapida flessione fino a ridursi sostanzialmente a valori di poco superiori allo zero. C’è sempre meno vitalità e sempre meno persone scelgono di diventare imprenditori. Questo è tanto più vero per le piccole e medie imprese e per gli artigiani. Si stima che negli anni della crisi circa diecimila imprese storiche, con più di cinquant’anni di attività, abbiano chiuso i battenti. Secondo il World Economic Forum, rapporto 2014-2015, la nostra competitività internazionale figura solamente in quarantanovesima posizione. Comunque si guardino questi numeri, stiamo senza dubbio assistendo a processi talmente profondi e prolungati nel tempo da lasciarci temere che più che di una crisi si tratti di un inesorabile declino.
Conviene allora concentrarsi sulle cause di questo fenomeno: cause che possono riferirsi, come premesso, a fattori esogeni oppure endogeni all’ambito delle nostre imprese. Senza alcuna pretesa di essere esaustivi, se ne elencano alcuni.