Tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni
La Repubblica italiana, come scrive la Costituzione, «è fondata sul lavoro». Il nostro mercato del lavoro, invece, è fondato sul conflitto.Non solo conflitto tra rappresentanti dei lavoratori e imprenditori,o anche tra le diverse sigle sindacali. Oggi si deve fare i conti anche e soprattutto con un conflitto virtuale – ma gravido di effetti reali– tra lavoratori. Se in estrema sintesi volessimo definire il nostro mercato del lavoro, probabilmente basterebbe una parola: duale. Quella che stiamo vivendo è, per dirla con le parole di uno studioso assai moderato come Pietro Ichino, una «condizione di apartheid» che grazie a una legge del 1970 (lo Statuto dei lavoratori e il suo articolo 18) separa milioni di lavoratori dipendenti protetti (tutti i dipendenti pubblici e i dipendenti delle aziende private con più di 15 addetti assunti ante Job Act), i quali non possono essere licenziati se non per «giusta causa», da milioni di lavoratori, ugualmente dipendenti di piccole aziende o assunti dopo la modifica dell’articolo 18, che invece possono essere lasciati a casa e che nei fatti portano sulle loro spalle tutto il peso della flessibilità. Una sorta di Giano bifronte. È questo un modello che non ha eguali in Europa e che produce distorsioni davvero macroscopiche. Meglio sarebbe parificare la situazione dei lavoratori rendendo valide per tutti le previsioni di legge relative ai nuovi assunti.
Chi ha un posto comunque sicuro e garantito è poco propenso a migliorare il proprio contributo nell’azienda in cui presta servizio, ovvero non trova alcun vantaggio nel perfezionare la propria professionalità per rendersi disponibile sul mercato e spuntare condizioni migliori.
Siccome in Italia il lavoro è regolato parossisticamente e costa molto, per cercare di rimanere almeno un po’ competitivi, i vari governi hanno sempre operato le cosiddette «riforme al margine».
Si sono, pur evitando la vera sfida di una riforma di sistema, cioè inserite nel sistema dosi anche minime di flessibilità, prevedendo nuove forme contrattuali come quella dei contratti temporanei o atipici (interinali, co.co.pro, ecc.). Oggi il discrimine è tra vecchi e nuovi assunti. Dal punto di vista politico la ratio è chiara: si evita uno scontro lacerante con i sindacati sul tema dei diritti acquisiti di chi un lavoro ce l’ha già e contestualmente si forniscono alle imprese modalità di attivazione di contratti più flessibili. È una scelta particolarmente miope perché chi era garantito prima oggi lo è ancor di più e tutto il peso della flessibilità necessaria viene scaricato sulle spalle dei pochi neoassunti, principalmente giovani: i forti finiscono per essere più protetti e i deboli per essere più esposti al rischio. Si consideri un altro aspetto non marginale. Oltre al dualismo tra protetti e non protetti, tra stabilità e precarietà, c’è un ulteriore conflitto, ora latente, destinato prima o poi a esplodere: si tratta di quello tra lavoro pubblico e lavoro privato. Se un’azienda chiude, i lavoratori vengono lasciati a casa (abbiamo visto con quanta disparità di trattamento), mentre se chiude un’istituzione (ad esempio, le province) tutti ammettono che in realtà i costi del personale si debbano spalmare su altre amministrazioni, perché i soggetti che lavorano in quegli enti vanno obbligatoriamente ricollocati nel comparto pubblico. Non vi è alcuna ragione che spieghi questa ipertutela: sarebbe come stabilire che la chiusura di uno stabilimento Fiat determini l’obbligatoria assunzione di tutti i suoi dipendenti in una fabbrica italiana della Volkswagen (ammesso per assurdo che la Volkswagen scelga di investire in Italia). Il lavoro pubblico – da ridursi nell’ottica di Privatizziamo! – deve doverosamente avere regole che ne garantiscano trasparenza e terzietà e questo aspetto può essere ampiamente soddisfatto con procedure di ingresso concorsuali rigorose. Ma per quale arcano motivo quando un soggetto entra a far parte del novero dei dipendenti pubblici dovrebbe diventare «illicenziabile» a vita? Questo genera una pessima allocazione delle risorse all’interno del sistema e produce effetti pratici che in nessuna azienda privata sarebbero sostenibili.