Tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni
Il lavoro e l’impresa sono due facce di una medaglia. Ovvero, con altre parole, rappresentano l’insieme dei produttori, dunque di coloro al servizio dei quali andrebbe posto ogni intervento legislativo e amministrativo perché dalla loro attività deriva la crescita del Paese e il benessere dei singoli.
Non sempre è così, tutt’altro. Con franchezza bisogna, però, riconoscere che vi sono anche responsabilità sia delle imprese sia dei lavoratori che si assommano a leggi astruse e scelte politiche sbagliate.
Il peggior mercato del lavoro in Europa
Nel 2001 Marco Biagi definiva quello italiano «il peggior mercato del lavoro europeo». Colpa di tassi di occupazione molto bassi, di regole complesse e spesso fuori dal tempo. Otto governi e 14 anni dopo la situazione non sembra essere migliorata di molto. A fine anni Novanta il tasso di occupazione in Italia era pari al 51%: nove punti in meno rispetto alla media dell’Unione Europea a 15 Stati.
Oggi il tasso di occupazione è salito di quattro punti percentuali (55%), ma la differenza rispetto ai competitor europei è rimasta invariata. Continuiamo a essere, quindi, uno dei Paesi con meno gente attiva al lavoro e questa caratteristica assume i contorni di una vera e propria patologia strutturale se guardiamo ai dati relativi ai giovani: oltre il 40% degli under 25 italiani è senza lavoro (contro una media europea del 22%) e, cosa ben più preoccupante, non si arresta il fenomeno dei Neet (not in employment, education or training).
La quota di ragazzi che non hanno un’occupazione e, al tempo stesso, non sono a scuola o non seguono un percorso di formazione si attesta al 26,4% della popolazione giovanile con punte del 35% nelle regioni del Mezzogiorno (fonte Istat).
Il deterioramento delle condizioni economiche generali ha messo ancor più in luce la difficoltà che il nostro Paese riscontra nell’offrire a imprenditori e lavoratori un mercato del lavoro equo,dinamico, meritocratico, capace di rispondere con rapidità ai mutamenti di scenario. Dal 1996 a oggi i modelli produttivi si sono profondamente trasformati e questo dato è comune alla stragrande maggioranza dei Paesi europei. Per l’Italia avrebbe dovuto rappresentare un grande vantaggio e uno stimolo a promulgare celermente quelle riforme che tutti i Paesi erano chiamati ad adottare. Dalla fine degli anni Novanta a oggi, nel resto d’Europa si sono messe in cantiere importanti riforme che hanno inciso sulle dinamiche e sulla qualità del mercato del lavoro. L’Italia non è stata da meno, realizzando almeno quattro grandi interventi legislativi (Treu, Biagi, Fornero e Jobs Act), incapaci tuttavia di dirimere le contraddizioni antiche del nostro sistema, quantunque vada riconosciuto che soprattutto la riforma Biagi, seppur mai completata, ha garantito una discesa rapida dei tassi di disoccupazione e il numero più elevato di persone al lavoro degli ultimi vent’anni. Le riforme
hanno inciso in maniera limitata per la difficoltà precipuamente italiana ad applicare con rapidità le norme che il Parlamento licenzia.
È successo quindi che gli altri Paesi hanno dato corso alle riforme e le hanno implementate mentre qui, dopo qualche conferenza stampa di presentazione dei nuovi interventi governativi, si è perso tempo nell’attuazione pratica di quei dispositivi. Oppure, melius re perpensa, si sono adottate modifiche volte a edulcorare i provvedimenti assunti. Si guardi, a paradigma, alla riforma Fornero del 2011: nel 2014 erano già sette le modifiche sostanziali che vi erano state apportate.
C’è poi chi sostiene anche la tesi contraria, e cioè che il nostro mercato del lavoro sia messo così male a causa di una profonda sofferenza del nostro sistema produttivo (manifatturiero in particolare).In questi casi si cita spesso la frase: «non si crea lavoro per decreto». È forse una massima ben fondata, ma va ricordato che per decreto si può anche distruggere il lavoro che c’è o che ci sarebbe, e ne sono prova i disastrosi risultati della riforma Fornero che, irrigidendo gli strumenti con cui gli imprenditori potevano assumere, ha finito per scoraggiare le imprese, facendo aumentare pure il numero di rapporti risolti o mai avviati. Né il Jobs Act pare salvifico: tutt’altro, ha infatti facilitato la stabilizzazione dei rapporti più che nuove assunzioni. Non è vero che la crescita del pil da sola traina l’occupazione: l’aumento della ricchezza prodotta è un dato necessario, ma non sufficiente. I Paesi dove le politiche del lavoro funzionano meglio (dove c’è un mercato del lavoro dinamico, dove vi sono le politiche attive più funzionali, ecc.) sono anche quelli in cui l’occupazione è proporzionalmente calata meno rispetto allo scadimento del pil.
A questa condizione già di per sé delicata si è poi aggiunta la inadeguata riforma del titolo V della Costituzione – in parte rivista – che ha avuto, in tema di lavoro, un impatto devastante. Mentre in Europa le politiche di indirizzo sono affidate al livello nazionale e l’organizzazione dei singoli servizi è demandata alle istituzioni locali, in Italia si è scelta una via completamente in controtendenza: il cosiddetto «federalismo» ha infatti attribuito potere di indirizzo e risorse per l’attuazione alle regioni, spesso sprovviste della visione e delle competenze necessarie per affrontare un tema così complesso. Il risultato sono 20 sistemi tutti disallineati, che non comunicano, che hanno banche dati separate e che implementano misure e strumenti di monitoraggio completamente diversi tra loro.