di Massimo Blasoni
I grandi leader politici si rivelano tali per il loro saper comprendere
le questioni cruciali del tempo, se necessario andando contro
corrente. Lo fece ad esempio Bettino Craxi quando si convinse
che il salvataggio della nostra economia dovesse passare attraverso
l’abbattimento del perverso meccanismo della scala mobile, che,
sulla base di uno strampalato automatismo, faceva scattare in alto
i salari prescindendo da qualsiasi dato economico produttivo (erano
i tempi in cui a sinistra si teorizzava il salario come «variabile
indipendente» dei costi di produzione…). Aumenti di paga sì, ma
al prezzo di un’inflazione eccessiva e dunque dannosa per la stessa
capacità d’acquisto, che nel 1974 raggiunse il 24,10%. È un esempio
fra tanti altri possibili. E, guardando all’Europa, perché non ricordare
il famoso “No, no, no!” indirizzato da Margaret Thatcher a
Jacques Delors, allora presidente della Commissione europea? Prima
gli interessi della Gran Bretagna, poi quelli comunitari. O il Piano
Hartz di Helmut Schröder sul mercato del lavoro. Costò le elezioni
ai socialdemocratici tedeschi, ma riuscì a contenere l’inflazione e
ad aumentare il tasso di occupazione.
Trasporti, infrastrutture, ambiente, energie, rifiuti: in Italia il
procedere delle scelte (quando ci sono state) non è parso quasi mai
frutto di una strategia consapevole e nazionale. Così per il turismo,
la cultura o il sostegno alle nostre aziende all’estero. Essere
convintamente liberisti e pensare alla centralità del singolo e, in
economia, dell’impresa, non vuol certo dire condividere l’assenza
di qualsivoglia intervento politico, ovvero politiche ondivaghe sui
temi di interesse generale. Non servono certo piani quinquennali,
tuttavia la produttività e la competitività del sistema dipendono
anche da strategie d’insieme. C’è qualcuno che intuisce un piano
vincente nella nostra offerta universitaria o nella nostra strategia
su porti e ferrovie? Occorre imporre una particolare visione delle
cose e, soprattutto, non essere disposti a barattarla in cambio di un
consenso facile e quindi effimero.
Alla maggior parte degli eletti, invece, manca l’indipendenza
necessaria per fare proposte. L’abilità, troppe volte, pare consistere
nell’intercettare gli umori dei più, per poi sostenerne le tesi. Con
questo non si vuole negare che vadano colte e interpretate le richieste
della gente, tutt’altro. Va evitata ogni chiusura dei politici in
virtuali turres eburneae. Il rapporto con la società nel suo insieme
non deve però essere acritico. Non è ammissibile dire sì a richieste
talora insostenibili e nemmeno sostenere proposte smussate fino al
punto di renderle accettabili a (quasi) tutti e quindi spesso inutili.
Nel 1987, ad esempio, un’opinione pubblica spaventata dall’incidente
al reattore sovietico di Chernobyl ha imposto la chiusura
immediata delle nostre centrali atomiche, benché si sapesse assai
bene che ne sarebbero rimaste decine in funzione a poche centinaia
di chilometri dalle nostre frontiere. Fu una scelta sbagliata, che oggi
viene scontata in termini di approvvigionamento energetico e di
mancato know how industriale in un settore cruciale.
E la difficoltà di assumere decisioni si riscontra nelle grandi come
nelle piccole questioni, sino all’ultimo inceneritore da realizzare, ma
osteggiato da qualche comitato. Non va conculcato il diritto al dissenso
dei «no Tav». Presa la decisione di realizzare l’alta velocità come qualunque
infrastruttura, occorre però essere conseguenti. Così pure quando
si toccano gli interessi di gruppi che molto condizionano. Dai notai ai
farmacisti, dagli avvocati al sindacato, sembra impossibile riformare.
La politica nel nostro Paese è eccessivamente acquiescente all’emotività
e agli interessi di larghe e piccole fasce di cittadini, comitati,
corporazioni, caste e così via.
tratto dal libro “Privatizziamo!Ridurre lo Stato, liberare l’Italia”
di Massimo Blasoni